Commento

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Classificazione dei manoscritti CR presentano la stessa lettura quasi sempre, nel corso del componimento, con cinque differenze in un totale di ottantacinque varianti. La divisione CR:Ma ricorre tredici volte, mentre CRa:M sedici volte: ciò dimostra che M è solo lontanamente imparentato con a. Nel manoscritto a mancano la prosa della cobla IV e le coblas V e VI: a diverge undici volte dalla lettura degli altri tre manoscritti e si presenta vicino alla tradizione di CR. Non esiste un caso sicuro di errore comune tra le varianti, il che limita la possibilità di un sicuro raggruppamento. Secondo Pattison, i manoscritti potrebbero essere raggruppati così: [1]
CR – a – M 

 

Struttura e note al testo La ricerca innovativa e provocatoria di Raimbaut giunge siano all’effrazione di ogni schema in Escotatz, mas non sai que s’es, gap ripartito in sei coblas unissonans – di sei versi ciascuna – che presentano il seguente schema rimico e gonico a8 b8 a8 b8 a8 b8 (a: -er; b: -ar). La particolarità di questo componimento, definito – forse impropriamente – come «prosimetro»[2], è che ogni cobla è seguita da una porzione di prosa – o oratio soluta, come la definisce Limentani[3] – più o meno lunga: tale tipologia sembra costituire un unicum nella poesia trobadorica[4]. La poesia prosimetrica era conosciuta e praticata in ambito liturgico[5], nell’esegesi testuale cristiana e «ne’ Canti istruttivi, dando le prose, collocate a piacere del Poeta, il destro a questo di spiegarsi meglio, e di afforzare con confronti e novelle i dettati suoi, il che forse per rima non avrebbe potuto con decoro eguale e facilità conseguire»[6]. Raimbaut dà quindi alla prosa la funzione di chiarare meglio il senso dei versi, commentandoli: tra le singole porzioni di prosa non vi è alcuna continuità di discorso, ma esse appaiono – se non indispensabili – utili al discorso. Questo procedimento, che verrà ripreso da Dante nella Vita Nuova, sembra voler dare al testo un carattere «quasi spiriturale»[7], e non a caso nell’ultima cobla emerge l’immagine del battesimo: «He elucidates his scripture through his exegesis and so takes on two roles, that of God the creator and that of man the commentator in his role as reader».[8]

 

1-6. Raimbaut inizia il suo componimento con un richiamo diretto al pubblico, attraverso il verbo escotatz, già utilizzato da Marcabru nel suo componimento Dire vos vuoill ses doptanssa[9] (BdT 293, 18), che suscita nell’uditorio del trovatore l’attesa di una precisa specificazione di genere; è, infatti, nello stile di Raimbaut la denominazione del genere nei versi di apertura. I primi destinatari del canto sono i senhor – i signori –, una cerchia, maschile, di intimi; il poeta, presentando l’idea dell’autore che parla ironicamente della propria opera, afferma di voler iniziare qualcosa di nuovo, a cui non sa trovare un nome, a cui non sa attribuire un genere, poiché non coincidente con nessuno dei modelli tradizionali. Si viene così a creare il particolare binomio conoscitivo- produttivo del sapere-fare, elementi tra i quali «esiste un rapporto vincolante che Escotatz infrange e stravolge dichiaratamente, dando segno negativo al primo termine»[10]: Raimbaut, infatti, afferma da un lato di star producendo qualcosa e di averne la capacità, ma dall’altro di non sapere che cosa è ciò che sta componendo. Questo «venir meno, in maniera esplicita e plateale, ad un autoincasellamento generico»[11] è da ricondurre al gusto rambaldiano di mettere in discussione sé stesso e rientra nella medesima tipologia di altre due poesie: l’anti-gap Lonc temps ai estat cubertz (BdT 389, 31) e l’anti-ensenhamen Assatz sai d’amor ben parlar (BdT 389, 18), che hanno per destinatari rispettivamente i «cavallier» (al v. 7 appare proprio il verbo escotatz) e i «bos domneyadors» (v. 10). I senhors non saranno gli unici destinatari: questi, o attraverso i richiami diretti («vos») o nella forma verbale che implicita la compartecipazione, li ritroveremo nella seconda cobla, riappariranno – in maniera particolarmente marcata – nella prosa della terza cobla, per poi non essere più chiamati direttamente in causa, lasciando il posto ai successivi destinatari. Questo passaggio non comporta l’annullamento dei senhors: non più direttamente coinvolti, «essi divengono il pubblico divertito, e forse sghignazzante, di un locutore-personaggio, che nel suo lirico monologare, si esibisce davanti a loro su un immaginario palcoscenico»[12].
Per quanto riguarda l’intenzione di Raimbaut di iniziare qualcosa di nuovo – anche se con un fine totalmente differente – è riscontrabile nella lirica presentata precedentemente, Ab nou cor et ab nou talen (BdT 389, 1), dove il trovatore afferma «vuelh un nou verset comensar»: notiamo come in entrambi componimenti la parola-rima comensar attrae a sé il verbo vuelh. M non legge comensar, ma contar.
1. L’espressione no sai que s’es viene ripresa dal componimento Farai un vers de dreyt nien (BdT 183, 7)[13] di Guglielmo IX d’Aquitania (v. 25 «Amigu’ ai ieu, non sai qui s’es») e innesca un dialogo a distanza tra i due trovatori; tra le due liriche, infatti, intercorrono circa 60 anni. Raimbaut, oltre a recuperare quest’espressione singolare, trae il motivo che Guglielmo IX utilizza per la sua prima strofa – l’atto di cantare qualcosa di indefinibile – e lo rende il tema principale della sua lirica. Proprio come Guglielmo IX, che nell’ultima strofa afferma «Fait ai lo vers, no sai de cui», il nostro trovatore trasferisce l’annuncio del primo verso all’inizio dell’ultima strofa, negando al discorso poetico una vera evoluzione e ripiegando il senso finale del componimento su sé stesso; se, però, in Guglielmo IX il verso esordiale – Farai un vers – dichiara un preciso intento compositivo (egli scriverà ‘sul puro nulla’, ma pur sempre nella veste formale del vers), in Raimbaut la frattura è più profonda. Viene, inoltre, ripreso il tema della confusione psichica provocata da Amore in gran parte dovuta ad uno stato di alterazione sentimentale[14], ma a differenza del trovatore di Poitiers – che raffigura un amore contemplato e distanziato – Raimbaut manifesta la concretezza reale dell’appagamento amoroso[15], basando il resto del componimento sul concetto di realtà tangibile e presente, che va anteposta alle belas paraulas e al lonc respieg. Secondo la congettura data da Pattison[16], la canzone vuole essere una parodia del componimento di Guglielmo IX, nello slittamento dal canto per una dama sconosciuta (no sai qui s’es) al canto che non si sa che cosa sia, ma solo in parte: il poeta, irritato dalle nuove mode terminologiche delle forme strofiche, e alla confusione che doveva derivarne – dibattito assai vivo al suo tempo (vd. come anche altrove il poeta ironizza sulle denominazioni di vers, chanso[17]) –, aveva voluto scrivere una satira contro l’esagerata tendenza alla differenziazione del genere.[18] Secondo Pasero, invece, non è da escludere che Raimbaut abbia tentato di imitare il suo precedente: «come talora avviene, il suo parziale fallimento si legge a tratti come una parodia»[19].
Il no sai que s’es può essere rintracciato anche in un’altra lirica trobadorica, la tenzone Amicx Albertz, tensos soven[20] (BdT 10,6 = 16,5) di Aimeric de Peguillhan e Albert de Sisteron. La tenso, che verrà scritta circa 50 anni dopo Escotatz, aveva sicuramente come punto di riferimento la canzone di Guglielmo IX e quella di Raimbaut. Aimeric, infatti, sottolinea che non parlerà dell’amore o di altre cose comuni, ma «d’aizo qi res non es», come similmente aveva fatto Guglielmo IX: «Farai un vers de dreyt nien: | non er de mi ni d’autra gen, | non er d’amor ni de joven, | ni de ren au […]». La risposta di Albert de Sisteron registra nel suo primo verso (v. 9) il dreyt nien e nella sua seconda risposta, al verso 32, «eu respon a “non sai que s’es”». Lo studio presentato da Köhler (1964)[21] ha avuto come obiettivo quello di invertire la cronologia e di utilizzare la tenso per contribuire all’illuminazione delle due canzoni più vecchie, che ancora non hanno rivelato completamente il segreto del loro ‘no sai que (qui) s’es’. Non è possibile, infatti, trovare un’unica chiave di lettura di Escotatz, «un testo in cui il serio si alterna al faceto e in cui questioni formali si intrecciano alla problematica amorosa»[22].
3. Raimbaut, cercando di trovare un genere al suo componimento, cita tre diverse tipologie di canto cortese. Il vers è il genere onnicomprensivo che all’inizio del trobar indicava tutti i componimenti, indipendentemente dalla tematica; il nome, poi, venne riservato soltanto alle canzoni d’amore e, successivamente, sostituito dal termine canso. Alcuni studiosi hanno individuato lo stretto legame fra il versus di san Marziale – canti paraliturgici in rima composti nell’abbazia di Limoges – e la tradizione trobadorica, la quale ne avrebbe tratto origine, ispirazione testuale e soprattutto materiale poetico-musicale per i propri vers. È un termine indeclinabile e non presenta traduzione: l’espressione che si avvicina di più è componimento, o meglio più tecnicamente ‘componimento elaborato alla maniera dei vers sanmarzianesi’[23]. L’estribot, lo strambotto, è una forma metrica rara, costituita da una serie di alessandrini monorimi, che si applica ad un componimento di argomento morale o satirico.[24] Il sirventes, invece, è un testo poetico di carattere politico, satirico o moraleggiante, composto su una melodia nota, tratta da una canso. Il testimone M non legge estribot, ma ni chanços. Riquer compara questo verso ai vv. 22-23 del componimento di Bernart Marti, D’entier vers far ieu non pes[25] (BdT 63, 6): «Que chanso ni sirventes | n’estribot ni arlotes», aggiungendo in nota «son ciertos géneros de poesía juglaresca».[26]
4. La parola-rima trobar ricompare al v. 30, ma con un significato del tutto diverso: mentre qui il termine viene utilizzato con l’accezione di ‘imbattersi in ciò che si cerca’, traducibile con il verbo trovare, al v. 30 assume il significato di ‘esprimere con tropi, poetare’. Mentre C, M e a leggono sai (M sa, a sei) trobar, R legge puesc trobar.
6. Acabar: ‘compiere, venire a capo’. È possibile incontrare questo verbo in Er quant s’embla‧l foill del fraisse (BdT 389, 15), v. 20 «Si sa grans merces m’acaba | mon car desir qu’ai tan volgut» (Se la sua grazia porta a termine il mio caro desiderio, che ho tanto bramato), dove acabar indica il compimento dell’atto sessuale. Letteralmente: «se tale non lo potessi compiere, che mai non se ne fosse visto fatto uguale da uomo né donna in questo secolo né nell’altro che è passato».[27]
Prosa (I). Appel, Bartsch e Crescini seguono il testimone C «que hom mais non vis fach aital per home ni per femna […]»; in questa sede, al contrario, si fa fede a Pattison, che per la sua edizione utilizza come base il manoscritto R. Pattison: «R shows very few individual variants against a moderate number for C, hence I have chosen R as the base». L’espressione fag aytal è considerata polisemica e potrebbe alludere all’attività poetica e alla donna, figura che verrà esplicitata nella prosa successiva alla terza cobla.
7-12. Il trovatore insiste sulla necessità di portare a termine il suo lavoro e, in particolare, esprime il concetto che vale più ciò che si stringe oggi piuttosto che ciò che si potrà stringere domani: se egli si limitasse ad incominciare e non conducesse alla fine il suo componimento strano, non commetterebbe forse una follia? Renderebbe vana la promessa fatta al suo pubblico nel secondo verso, se non desse per intero ciò che ha iniziato: il pubblico, infatti, si aspetta una poesia finita, piuttosto che una forma riconoscibile. Gli oggetti finiti e completati sono ciò che il pubblico chiede a chi parla e ciò che anche l’oratore considera di valore. Inoltre, anche se quest’opera, al suo compimento, sarà poca cosa e, magari, varrà sei denari, sarà sempre meglio averla conchiusa, mantenendo la promessa fatta; potrebbe, forse, riuscire meglio e valere di più anziché sei denari, ma forse domani o forse mai: è meglio ciò che adesso si vede e si possiede che ciò che lampeggia nel futuro.
7. M’o tenetz a foles: ‘me lo teniate a follia, la consideriate follia’. L’eccentricità della prima cobla non potrà che portare il pubblico dei senhors a recepire il componimento come ‘follia’. «Sitot m’o tenetz a foles» sarà susseguito da «tenriatz m’en per fol» (prosa) e da «soy fols cantayre cortes» (v.29). L’idea della follia e del poeta folle contrassegna tutta la produzione lirica di Raimbaut, tanto che Guiraut de Bornelh, scrivendo in morte dell’amico, ne rimpiange la bella foudatz (S’anc iorn agui ioi ni solatz[28], BdT 242, 65). Inoltre, folle e follia rimandano alla sfera cortese della ‘follia d’amore’.
8-9. No‧m poiria laissar que + congiuntivo (non disses): ‘non potrei tralasciare, non potrei fare a meno di dire’. M non riporta poiria, ma vueilh, cambiando il senso della frase: «non voglio fare a meno di dire».
9. Il sostantivo talan ricorre con un’alta frequenza nel vocabolario cortese, assumendo per lo più un’accezione amorosa. Qui, può essere inteso nel doppio campo semantico – nei riguardi della poesia da comporre e come desiderio per la donna, che in seguito verrà apertamente invocata – e ha un’importante funzione-cerniera. Il collegamento tra talen e canto è riscontrabile in altre liriche di Raimbaut: Ab nou cor ab nou talen (BdT 389, 1), v. 1, Ara‧m platz, Giraut de Borneill (BdT 389, 10a) v. 9, Car vei qe clars (BdT 389, 38) v. 11, Una chansoneta fera (BdT 389, 40) v. 11.
10-11. Castiar è un termine frequente nell’ensenhamen[29], poiché indica in primo luogo la correzione morale, l’ammonimento. In questi due versi, il testimone M restituisce una lezione totalmente differente rispetto agli altri tre: «de so q’ara vos vueilh mostrar | so qe fon non pres un poges» (ora vi voglio mostrare che tutto ciò che fu non è stimato un poggese). Questa lezione non viene considerata dalle edizioni critiche. In questa sede, si predilige la lezione del testimone R – con parziale conferma di a – accolta da Pattison, ma non da Appel, Bartsch e Crescini, che riportano la lezione di C poiria.
11. Crescini, rispetto ad Appel, a Pattison e a Bartsch, utilizza la lezione di a er (sarà) al posto di quella di CR es (è). Crescini: «in er si accoglie il pensiero dominante della poesia tutta e brilla insieme il pregio che, tra molti difetti e correzioni, tratto tratto il canzoniere a disvela, come raggio tra nubi»[30]. Concordi alla congettura di Crescini, per quest’edizione viene utilizzato er, che meglio rispetta il senso del verso e delle prossime coblas.
11. Poges: «piccola moneta fatta battere dai vescovi del Puy»[31]; come si apprende dal testo, era una moneta di scarso valore.
12-13. Secondo Fratta[32], questi due versi non sembrano altro che una parafrasi dei versi 23-24 di Can par la flors[33] (BdT 70, 41) di Bernart de Ventadorn, che chiarirebbero il senso della seconda cobla, tra le più oscure del componimento: «s’eu no vos vei, domna, don plus me cal, | negus vezers mo bel pesar no val». Il so c’ades vey et esgar di Raimbaut rispecchierebbe esattamente il mo bel pesar di Bernart.
Prosa (II). Per mil sols le traduzioni propongono: «mille “soli”» (Pattison), «mille soli/soldi» (Pasero), «mille sol(d)i» (Di Girolamo). Pattison: «The proverb is not used in its most common meaning, “A bird in hand is worth two in the bush”, but rather in the sense that something definite or tangible, in this case the completed song, is worth more than a vague promise or idea, specifically the project of writing a strange new type of song».[34] Anche se l’immagine dei ‘soli’ risulta inusuale nella lirica trobadorica, viene innescata dal contesto per il gioco di parole che si instaura con ‘cielo’. A tal proposito si confrontino i vv. 53-54 del componimento di Gaucelm Faidit, Tant ai sufert longamen gran afan[35]: «Q’un pauc auzel e mon poing, que no‧is n’an, | am mai q’al cel una grua volan» (“Un piccolo uccello nel mio pugno, che non se ne vada | l’amo più di una gru volante in cielo”).[36] Seguendo la traduzione di Pattison, la nostra traduzione restituisce il termine ‘soli’. Quanto al significato dell’espressione, gli editori sono d’accordo: meglio qualcosa di meno prezioso ma compiuto, che qualcosa di straordinario ma – almeno al momento – inattingibile.
13-18. Il poeta, attraverso una breve premessa, mette in confronto la figura dell’amic – secondo destinatario, che offre aiuto a Raimbaut, non subito, ma solo nel momento in cui ha la possibilità – e la domna – che l’ha tratto a sé, l’ha conquiso e l’ha ingannato – creando delle ambiguità: la lezione mos amicx, letteralmente ‘il mio amico’, indubitabile poiché tradita da tutti i manoscritti, è stata diversamente interpretata. Liborio e Giannetti hanno intravisto nel passo in oggetto la metafora del linguaggio feudale, qui posta ad anticipare il successivo sviluppo del testo: amicx, infatti, è maschile, proprio come midons (< lat. MĪ DOMINUS)[37]. Beltrami, per parte sua, spiega tale ambiguità assegnando all’espressione un tono genericamente sentenzioso: «non m’importa che mi si mantengano le promesse, che mi si dia aiuto ora quando mi serve, e me lo si prometta pure senza sapere per quando, perché tanto più ingannato di così non posso essere»[38]. Già Crescini aveva avanzato una lettura simile, proponendo l’ipotesi che il poeta, alludendo a una indeterminata figura maschile, stesse preparando l’apparizione della donna: mentre l’amic non manca alla promessa perché non lo aveva lusingato, la domna – che indugia a dare ciò che ha promesso – lo rende «vittima d’una illusione penosa»[39]; di conseguenza, il dolore provocato da un amico che ritarda nella sua offerta d’aiuto è ben poca cosa. In questa cobla, la domna si nasconderà dietro il parallelo con l’amic: vediamo come al v. 17 C, M e R riportano cel – nelle sue varianti – che «adombra meglio l’allusione vaga del poeta, che ancora non vuole indicare proprio chi l’abbia ingannato».[40] Solo l’indicazione che segue nella prosa svelerà la figura della donna.
L’analisi è sicuramente interessante e sembra confermata dall’utilizzo differenziato, da parte di Raimbaut, dei termini amic e amica/amigua, rispettivamente per i generi maschile e femminile. Si vedano, a tal proposito, due versi del componimento Apres mon vers vueilh sempr’ordre (BdT 389, 10) – v. 62 «eu que·us sui verais amic» e v. 65 «non er q’ieu non si’amics», dove il sostantivo è chiaramente legato alla persona loquens (maschile); ugualmente in Pois tals saber mi sortz e·m creis (BdT 389, 36) troviamo ai vv. 25-26 «Estat ai fis amics adreis | d’una que·m enganav’ab tric», e ai vv. 32-35 vediamo delinearsi la triangolazione eu/domna/amic «Ab leis remanga·l malaveis | e·l engans et ab son amic; | que tals joys m’a pres e m’azeis»; nella tenso Amics, en gran cossirier (BdT 389, 6), la voce femminile si rivolge al proprio amante con l’appellativo amic, mentre ella è definita dona nelle coblas pronunziate dall’uomo; infine, Cropp[41] nota che nel salut Donna, cel qe‧us es bos amics, ai vv. 107-109, Raimbaut oppone apertamente il termine maschile amic e il femminile amia «si no·m volez estre amia, | aizo no·m podez tolre mia | q’eu toz temps no·us sia amics».
15-18. Questi versi sembrano collegarsi all’importante passo di Quan l'erba fresc’e‧l foilla par[42] (BdT 70, 39), vv. 49-52: «Be deuri’om domna blasmar, | can trop vai son amic tarzan, | que lonja paraula d’amar | es grans enois e par d’enjan».
Prosa (III). Lonc respieg è una delle varianti del senhal Bon Respieg, insieme a Bon Esper e Lonc Desir. Si è ipotizzato che il senhal identifichi una donna, di cui sappiamo per certo che fosse di alto rango (cfr. Un vers farai de tal mena [BdT 389, 41], v. 48: «Qu’ill es tant nomenativa»), ma nulla ci è noto delle sue fattezze, né della sua reale identità; Pattison sostiene che ella sia un personaggio immaginario. Lonc respieg esprime la stessa situazione di incertezza e di attesa in amore anche nella cobla V di Pos trobars plans es volgutz tan (BdT 389, 37), vv. 33-40: «Mos volers cans qe‧m sal denan | me fai creire qe futz es pans; | tan aut m’espeis mon cor car sai | q’en fol m’aurei, don faz l’efan: | tot voll can vei; Respeit segrai: | Respeitz loncs fai omen perir» (Il mio desiderio cane che mi salta davanti, | mi fa credere che legno sia pane; | a tal punto indurisco il mio cuore, perché so | che sembrerò pazzo, e allora faccio il bambino: | voglio tutto quello che vedo; seguirò Attesa: | lunga Attesa porta solo alla morte)[43]. Nella cobla IV, infatti, l’io lirico lamenta che sono passati quattro mesi da quando la donna gli ha promesso il suo amore, senza però che tale promessa sia stata mantenuta. Il fatto che questa poesia usi il senhal Lonc Respieg lo colloca a metà della produzione di Raimbaut, secondo lo studio cronologico di Pattison[44]. M non legge respieg, ma espers, ulteriore variante del senhal.
19-24. Raimbaut si trova davanti a due tipi di relazioni diverse: da una parte, la sua relazione da poeta con il pubblico, dall’altra, quella da amante con la sua donna. Mentre come poeta conferma il controllo sul suo pubblico – addirittura crea un genere ex nihilo – e mostra la capacità di soddisfare le aspettative completando il suo lavoro, come amante riflette un desiderio che non viene appagato, poiché la donna rifiuta di acabar la loro relazione, dimostrando di non aver alcun controllo: «as lover, however, he artuculates the position of an Augustinian orator who must wait for his audience to complete the dialogue».[45]
24. Per quest’edizione, viene utilizzata la lezione di C adoussatz, scegliendo di non seguire Pattison, il quale congettura la lezione adossatz, non presente nei quattro testimoni.
Prosa (IV). Raimbaut cade nella finta disperazione e cerca l’assoluzione: prima invoca Dio – attraverso l’inserimento di parole sacre in latino – e poi la donna; la generica richiesta di aiuto, espressa nella terza cobla, viene esplicitata in questa porzione di prosa, per culminare nella quinta cobla in un’esortazione di tipo sessuale.
25-30. Attraverso l’ossimoro, viene espresso esplicitamente il tema della confusione psichica provocata dalla donna amata, già anticipato – nell’esordio – dall’«indeterminazione dal punto di vista di una dottrina dei generi»[46]. Il poeta, attraverso il lessico della disforia d’amore, sottolinea il suo stato contradditorio sia come uomo sia come poeta: l’amante è gays e al contempo pieno di tristezza[47] e il suo trobar, di conseguenza, si configura come triste-gioioso. Il poeta, infatti, è fols cantayre cortes, ovvero un cantore cortese pazzo: pazzo per amore e perché non rispetta più la forma del registro cortese. L’ossimoro è spesso ricorrente nello stesso Raimbaut: in Apres mon vers (BdT 389, 10), v. 19: «cil qi m’a vout tristi-alegre»; in Entre gel e vent (BdT 389, 27), v. 7: «cen ves sui lo jorn trist e gais»; in Domna, cel qe‧us es bos amics (salut), «e‧m fai irat s’anc mi fez baut» e in particolar modo in Car vei qe clars (BdT 389, 38), ai vv. 24-28: «Mos cors es clars | e s’esmaia! | Aici vauc mestz grams-iauzens, | plens e voigz de bel comens; | qe l’una meitatz es gaia | e l’autra m’adorm Cossirs | ab voluntat mort’e viva» (“Il mio cuore è raggiante ed è costernato! Così vado mezzo triste-gioioso, pieno e vuoto di bel cominciamento; ché l’una metà è gaia e l’altra me l’addormenta il pensiero con un desiderio morto e vivo”; non mancano in Raimbaut luoghi in cui si dichiara folle: Pos trobars plans (BdT 389, 37), v. 17: «Son ben aurans!»; Aissi mou (BdT 389, 3), v. 58: «Cor ai fol». Il tema della confusione psichica provocata dalla donna amata, secondo Pasero, verrebbe espresso – fin dall’esordio – dall’indeterminazione dal punto di vista di una dottrina dei generi.
27-28. Tals tres: Mentre Guglielmo IX si liberò del potere dell’amiga e si rivolse ad una «gensor et bellazor», Raimbaut ostenta di aver abbandonato ben tre donne per colei di cui ora ne reclama i favori. Se continuassimo a osservare la lirica sotto la lente della doppia semanticità, potremmo ipotizzare che l’aggettivo numerale in questione possa definire sia la quantità di persone da cui il poeta si è allontanato, sia i tre generi lirici – menzionati al v. 3 – da cui il poeta si è allontanato per dedicarsi al no sai que s’es. Al v. 28 compare il motivo topico della lode alla donna amata, immediatamente rovesciato, nella successiva sezione in prosa, dal richiamo alla figura di donna Ayma: questo verso segna il passaggio «dall’illusoriamente cortese all’osceno»[48].
30. Il senhal Joglar[49], in questo caso, non viene attribuito alla sua amica/confidente, ma a sé stesso, con la funzione di sottolineare il carattere folle del trovatore.
Prosa (V). «Chi è costei? C’è qua sotto un qualche perduto favolello? Od ha ragione il Suchier, il quale mi scriveva tempo fa che forse non si tratta che d’un bisticcio popolare, press’a poco del genere di quello del parroco Nolte? Se c’è chi domandi consiglio, gli si risponde: fai come il parroco Nolte. L’altro vuol sapere che abbia fatto il parroco Nolte. Risposta: “wie er wollte (“com’egli volle”)».[50] Si deve al Canello l’intuizione che questa Na Ayma sia l’eroina – pro e contro – oggetto della triplice tenso fra Raimon de Durfort, Trucs Malecs e Arnaut Daniel[51]. Un’antica biografia, tradita dai canzonieri I e K, narra un «aneddoto, diciamo così, mondano»[52], avente come protagonista una tale madonna Ayma (o Ena, o Aina, come leggono i diversi codici) che, corteggiata dal cavaliere caorsino, Bernand de Cornilh (nomen omen), chiese al suo spasimante, come prova d’amore, «si el no la cornava el cul». Il rifiuto del cavaliere destò tanto l’interesse dell’alta società, così da provocare un vero e proprio schieramento fra due partiti: contro il cavaliere caorsino insorse Raimond de Dufort, esso pure cavaliere, insieme all’amico Trucs Malecs, mentre Arnaut Daniel si schierò tra i difensori di Bernard, con il curioso sirventese Pois Raimons e‧n Trucs Malecs. A Canello, infatti, non parve improbabile che la espatla < SPATHULA (spatola) fosse la «rilla di qualche cavaliere meno scrupoloso di Bernard de Cornilh»[53]. Limentani[54] e Lazzerini[55] seguono e confermano l’ipotesi di Canello; Di Girolamo[56] aggiunge che N’Ayma finisce qui per assumere lo stesso ruolo esemplare attribuito a Isotta in Non chant per auzel ni per flor (BdT 389, 32); il trovatore, infatti, impiega in entrambi i casi gli stessi termini per l’appello finale alla dama:
[…] mantenen
atrestal potetz vos faire!
(Non chant per auzel ni per flor, vv. 47-48)
 
Dona, far ne podetz a vostra guiza […]
(Escotatz, mas no sai que s’es, prosa V)

 

La differenza tra i due componimenti è ovviamente di registro: da un lato il grande genere della canzone, dall’altro una «scanzonata poesia»[57]. Estui si trova anche in Guglielmo IX, al v. 47, e forse Raimbaut qui allude al passo – equivoco – del primo trovatore e suo modello anche per l’invocata contraclau (v. 48): «Fait ai lo vers, no sai de cui; | et trametrai lo a celui | que‧m tramezes del sieu estui | la contraclau» (Ho composto il vers, non so su chi; | e lo invierò a colui che me lo invierà, per tramite d’altri, perché mi invii la ‘controchiave’ per aprire il suo tesoro)[58] . In ogni caso, il senso inteso sembra essere osceno, e la sguaiataggine travolge ormai tutto il discorso precedente, forse ripercuotendosi anche sull’autodefinizione finale del poeta: «sel que sap be far totas fazendas can se vol».
Fra la storia di donna Aima, che «estujet lai on li plac» la spada, e le vicende di donna Ena sussistono differenze notevoli, non assimilabili se non sotto il segno dello scatologico (peraltro solo supposto nel primo caso), ma l’analogia non va trascurata. Secondo Canettieri: «il personaggio di Truc Malec, che difende la dama, potrebbe ben essere quello di Raimbaut, che aveva audacemente assimilato la propria dama alla licenziosa N’Aima. Nessun Truc Malec sarebbe esistito, in tal caso: questo personaggio non sarebbe altri che Raimbaut d’Aurenga, che nel suo no-say-que-s’es aveva preso le difese di N’Ayma»[59]. Così brusca e viva e quasi casta nella sua spudoratezza, N’Ayma si presenta come la figura inversa della domna genser que no say dir dei trovatori, di quella ‘madonna intelligenza’ che i poeti d’amore eleggono come fonte e fine del loro canto[60].
Il testimone M, probabilmente erroneo, a differenza di C e R, non presenta il personaggio di donna Ayma, ma riporta una certa Na Ponsa. È possibile ritracciare questo nome femminile nella lirica di Elias Cairel, So qe‧m sol dar (BdT 133, 13), in particolare nella prima delle due tornadas, vv. 41-44: «Dar vuoill ma chansson, s’il platz | a Na Ponssa part Duratz, | car jois e solatz e totas bontatz | van doblan e beutatz el sieu cors prezan»; secondo Lachin, donna Ponsa – di cui non si hanno informazioni – nella poesia di Cairel potrebbe essere la moglie di un feudatario del regno di Tessaglia, esponente della nobiltà cristiana dei regni latini d’Oltremare, la quale viene utilizzata dal trovatore come allusione politica[61]. Questa Ponsa non sembra essere in alcun modo assimilabile alla Ponsa di M. Non va, però, ignorata la Na Ponsa che appare nella razo – contenuta nel canzoniere P – di Anc mais no vi temps ni sason[62] (BdT 457, 9): secondo la storiella narrata, donna Ponsa strappò Uc de Saint-Circ a Clara d’Anduza, persuadendo Uc che la sua amante Clara l’avesse tradito e promettendogli ‘gran plazer’; le promesse, però, furono disattese[63]. Questa figura sembra essere affine alla donna descritta da Raimbaut, il quale afferma che sono passati quattro mesi da quando la sua amata le ha promesso che le avrebbe dato ciò che gli è più caro. Che M, testimone più tardo, abbia ripreso il nome di Na Ponsa proprio da questa storiella?
31-36. Il poeta riporta l’attenzione sul componimento stesso, nella sua eccezionalità, e infine sulla sua persona. I destinatari finora presentati si unificano in «quello universale del fruitore di poesia, libero e sconosciuto»[64], qui que s’en vuelha azautar. È possibile sottolineare la differenza tra questa composizione, dove Raimbaut persegue la volontà di fare cantare la sua canzone a chiunque, e gli scritti del trobar clus, dove è evidente l’indifferenza di Raimbaut alla diffusione delle sue opere.
Prosa (VI). Il manoscritto M reca una sezione completamente differente, ma di particolare interesse perché vi compare la firma dell’autore: «Uai ses nom e qit dema(n)da qita fag digas li den rainbaut qe sap ben far una balla de foudat qan si uol». Crescini – ma è l’unico – accoglie favorevolmente la chiusa di M:[65]
L’Appel non vuole ammettere che nella prosa finale s’abbia a preferire la lezione di M a quella di CR. Nella prima edizione avevo riprodotto il testo Meyer […] e nella edizione più recente volli un po’ ristudiare anche questo componimento per mio conto, su’ codici, tutti e quattro quelli, che ce l’han serbato, CMRa. Rispetto alla chiusa finii per non appagarmi delle ragioni dell’Appel, e per conservare la lezione di M, che riman solo contro CR, senza la concorde compagnia di a, il quale è mutilo.
Secondo Appel, infatti, il battesimo del no-sai-que-s’es si contraddirebbe con il successivo appellativo di ses-nom (M), e inoltre il «digas li d’En Rainbaut, qe…» deriverebbe da tutt’altri che dall’autore. Crescini controbatte affermando che ‘non-so-che-cosa-sia’ e ‘senza-nome’ sono designazioni sinonime e, di conseguenza, l’una non esclude l’altra, e che la parodia riesce più arguta con l’utilizzo della formula dei commiati[66], ridicolizzata da quel nome contraddittorio ses-nom. La lezione balla de foudat di M richiama la bela foldat del planh di Giraut de Bornelh (BdT 242, 76), v. 41: «Er’es morta bela foldatz»[67]. Il canzoniere M, esemplato probabilmente a Napoli sotto il regno di Carlo II d’Angiò (1285-1309), è da ritenersi meno fededegno dei codici di XIV secolo C e R, perciò per questa sede è stata scelta la lettura di CR.  L’affermazione finale che Raimbaut può fare bene qualsiasi azione – ed è chiaro che sono incluse le opere di natura amorosa – è una negazione della sua giocosa dichiarazione di indifferenza all’amore, espressa in Assatz sai d’amor ben parlar (BdT 389, 18) e persino dell'impotenza di Lonc temps ai estat cubertz (BdT 389, 31).
 

[1] Pattison 1952, p. 154.
[3] Idem, p. 137.
[4] «Les troubadours ajoutèrent quelquefois une espèce de commentaire aux pieces qu’ils composaient; ces explications, ordinairement en prose, places entre chaque couplet, servaient à en developer le sujet, et à fixer l’attention des auditeurs. Il nos reste dans ce genre une pièce de Raimbaud d’Orange, l’un de nos plus anciens troubadours connus; elle est la seule qui soit parvenue jusqu’à nous» (RAYNOUARD 1817, p. 248).
[6] Galvani 1829, p. 179.
[7] Spence1988, p. 118.
[8] Ibidem.
[9] Dejeanne 1909, p.77.
[11] Di Girolamo 1987, p. 263.
[12] Limentani 1977, p. 151.
[13] Pasero 1973, p. 92-94.
[15] Köhler 1964, pp. 349-366.
[16] Pattison 1952, p. 154.
[17] Cfr. A mon vers dirai chanso (BdT 389, 7).
[18] Per approfondire l’argomento cfr. Canettieri 2011.
[19] Pasero 1968, pp. 119-22.
[20] Shepard-Chambers 1952, pp. 62-63.
[21] Köhler 1964, pp. 349-366.
[22] Di Girolamo 1987, p. 261-273.
[24] Idem, p. 274.
[25] Beggiato 1984, p. 107-110.
[26] Riquer 1975, p. 255.
[27] Cavaliere 1938, p. 521.
[28] Kolsen 1910-1935, p. 28.
[29] Cfr. l’anti-ensenhamen Assatz sai d’amor ben parlar (BdT 389, 18), v. 36: «que ja mais no‧m vuelh castiar».
[31] Crescini 1926, p. 433 (Glossario).
[33] Appel 1915, p. 232.
[34] Pattison 1952, p. 155.
[35] Mouzat 1965, p. 249.
[37] Idem, p. 92.
[38] Beltrami 2004.
[39] Crescini 1907, p. 318.
[40] Ibidem.
[42] Appel 1915, p. 219.
[43] Milone 2004, p. 144-147.
[44] Pattison 1952, p. 155.
[45] Spence 1988, p. 120.
[46] Pasero 1968, p. 121.
[47] Irat-jauzen è parola ossimorica di stampo marcabruniano. Ed è proprio da Marcabruno che Raimbaut trae la costruzione di nuove parole composte; mentre, però, Marcabruno suole congiungere un verbo con un sostantivo, Raimbaut predilige la combinazione di due aggettivi di senso opposto.
[48] Buzzetti Gallerati 1996, p. 29.
[49] Vd. il punto 57-60 del Commento in Ab nou cor ab nou talen.
[50] Crescini 1907, p. 318.
[51] Canello 1960, 173-176.
[52] Contini 1936, pp. 223. «It is the identical jest at the wooer’s expense which, in Chaucer’s Miller’s Tale, Alisoun makes of her would-be seducer Absalon» (P. Dronke 1979, p. 288, nota 32.).
[53] Canello 1960, p. 187.
[54] Limentani 1977, p. 140.
[56] Di Girolamo 1989, p. 160.
[57] Ibidem.
[58] Pasero 1973, p. 94.
[61] Lachin 2004, p. 361.
[62] Jeanroy – Salverda de Grave 1913, p. 68.
[63] Lazzerini 2010, p. 149.
[64] Limentani 1977, p. 138.
[65] Crescini 1907, p. 315.
[66] Cfr. Si de trobar agues melhor razo (BdT 389, 38a), tornada: «A Mon Diable, qui belhs diz sap entendre, | t’en vai, chanso, e si te denh aprendre, | pueis poirai dir qu’eu sui ben cosselhatz | de Mon Cosselh, qu’es d’Aurenga laissatz».
[67] Kolsen 1910-1935, p. 28.