Commento

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A cura di Samantha Molinaro
 
1. La lirica in oggetto mette in scena una controversia poetica relativa alla maniera del trobar, nella quale Raimbaut d’Aurenga prende partito per lo stile clus e Giraut de Bornelh per lo stile leu.
L’argomentazione di Raimbaut si fonda sulla differenza qualitativa che sussiste fra i due stili: il trobar leu, con la sua pretesa di giungere intelliggibile ai più, rende uguali tutte le composizioni (e come può apprezzarsi ciò che è comunal?); il trobar clus, per parte sua, è un modo di comporre di maggior valore poiché plus car (v. 21), dunque più prezioso.[1] Si noti subito che l’aurengate non dà una precisa descrizione tecnica del suo poetare, e l’intero dibattito non è portato avanti mediante un solido sostegno argomentativo: il tono, anzi, è aggressivo e incalzante, sicché le sue caratteristiche emergono per contrasto dall’analisi degli attacchi rivolti a Giraut.
Questi, che nella pièce difende lo stile piano e disteso, non ne fu tuttavia un reale fautore. Il celebratissimo maestre dels trobadors[2], pur sostenendo in più occasioni il primato della poesia facile e leggera, nella prassi fu un poeta complesso e in certa misura lambiccato, vicino alle scelte artistico-stilistiche del signore d’Aurenga più di quanto lo svolgimento argomentativo della tenso non faccia supporre. La stessa definizione di “maestro” contenuta all’interno della vida provenzale, assieme alla menzione di un’alternanza stagionale tra insegnamento e tournées per le varie corti signorili, ha fatto supporre che egli svolgesse il ruolo di maestro del trobar e financo di retorica, ipotesi suffragata dall’eccellente qualità formale dei suoi stessi componimenti.[3]
Difatti Giraut, poeta quasi esclusivamente amoroso, mostra una costante tendenza all’artificio retorico e linguistico nonché – da un punto di vista prettamente contenutistico – al moralismo e al cerebralismo. Il poeta stesso, consapevole del ruolo che ricopre e delle sue capacità compositive, illustra il suo tortuoso percorso nella selva degli stili in A penas sai comenssar (PC 242, 11), curioso vers per metà occupato da considerazioni di poetica, dove egli esprime apertamente la necessità di aderire allo stile piano per ampliare il suo uditorio: A penas sai comenssar | un vers que vuoill far leugier, | e si n’ai pensat des hier | qel fezes de tal razo | que l’entenda tota gens | e quel fassa leu chantar; | q’ieul fauc per plan deportar (ed. Sharman 1989, p. 196): «Difficilmente so come cominciare un vers che voglio comporre leggero, e così da ieri sto pensando di farlo su un tema tale che chiunque lo possa comprendere e facilmente cantare, giacché lo compongo per dar piacere». Tuttavia, seguita Giraut, egli non avrebbe alcuna difficoltà a concepire un vers plus cobert, mas non a chans pretz entier | qan tuich non sunt parsonier (ed. Sharman 1989, p. 196): «una canzone non ha perfetto pregio se non ne sono tutti partecipi». Il trovatore, che dal suo mestiere ottiene un tornaconto monetario, ha tutto l’interesse acché le sue opere si divulghino e siano note – e facilmente cantate – da un pubblico quanto più vasto possibile.
Giraut sperimenta, nell’arco della sua lunga e prolifica carriera (che comprende 76 componimenti di sicura attribuzione), modi di comporre provenienti dalle più disparate scuole trobadoriche: dall’iniziale preziosismo dell’escuoill Linnaura [4] al rifiuto dell’impenetrabilità connaturale al trobar clus, in un travaglio stilistico che lo conduce infine a prediligere un poetare di tipo più cristallino, piano e divulgativo.
Paradossalmente, però, la lirica di Giraut risulta tra le meno trasparenti, densa com’è di simbolismi ed evocazioni costituenti un immaginario non convenzionale e anzi sovente impenetrabile, tendente all’allusività e all’implicito, cui dà forma una sintassi affatto articolata, tanto da far supporre che il suo sia «a ric rather than a clus style, embellished rather than presenting several levels of meaning».[5]
Ed è significativo che Giraut godette, fra i suoi contemporanei, della fama di poeta “difficile”: nel XIII secolo Bernart Amoros, compilatore di un canzoniere oggi perduto ma di cui è copia il manoscritto a, lo assurge a esempio illustrante la complessità della poesia provenzale e Girolamo Terramagnino da Pisa ne ricorda l’alto valore poetico ne La doctina d’acort (vv. 562-564). Ancora, Dante ne fa un poeta di rectituto nel De vulgari eloquentia, elogiandone le qualità metrico-stilistiche (V.E. II, II, 8; II, V, 4; II, VI, 6), per poi sostenere nella Commedia (Purg. XXVI, vv. 115-120) di preferire «a quel de Lemosi» la poesia di Arnaut Daniel. 
Il problema dello stile, che ricorre nel corpus di Giraut come un’autentica ossessione, ci consegna l’immagine di un trovatore quasi dimidiato fra la volontà di guadagnare il favore e l’apprezzamento di un uditorio ampio e la sua naturale ma opposta tendenza verso un’arte che sia per pochi e raffinati eletti. Per citare de Riquer: «Giraut de Bornelh es fundamentalmente un trovador de oficio, un profesional de la poesía que se deba a un público, al que complace con las filigranas del trobar ric o esforzándose en alcanzar la llaneza del trobar leu según los gustos del auditorio ante el que ha de exhibir su canción o según el ambiente en el que aspira a cosechar un éxito».[6]
Al tempo di composizione del dibattito sugli stili, il trobar clus non riceveva già più il pieno consenso del pubblico: esso aveva modificato i suoi obiettivi nel passaggio da una generazione trobadorica all’altra e, seppure largamente impiegato da poeti del calibro di Peire d’Alvernhe[7], esso venne gradualmente svestito del suo fitto tessuto morale originario e reso artificiosamente oscuro dall’accumularsi di lessici personali e significanti per ciascun trovatore, con l’evidente rischio di riuscire completamente inintellegibile ai più.[8]
Possiamo allora comprendere la scelta poetica di un trovatore ensenhatz come Giraut, che equivocamente difende i meriti del trobar clus – ma solo di un certo tipo di trobar clus – nella stessa lirica La flors el vergan (PC 242, 42), dove pure aveva ammesso la positività di una poetica di stampo leu: Mas be cre | que ies chantars se | non val al comenssamen | tant cum puois, qand hom l’enten (vv. 27-30 ed. Sharman 1989, p. 169): «Ma credo fermamente che una canzone non vale tanto all’inizio quanto dopo, quando un uomo la comprende».
Come nota Linda Paterson, Giraut è attento a porre una differenziazione qualitativa fra uno stile denso di significati, che rivela i suoi contenuti gradualmente all’ascoltatore attento, e un altro che invece è oscuro perché non cela, dietro la forma complessa e artificiosa, alcun significato.[9]
Dopo aver fatto luce sulla posizione assunta da Giraut de Bornelh e volgendo nuovamente lo sguardo alla tenzone, è naturale domandarsi a questo punto quale sia, nei fatti, il rapporto che il difensore del trobar clus Raimbaut intrattiene con questo stile.
Questi ne aveva dato un saggio nel poema giovanile Cars, dous e feinz | del bederesc (PC 389, 22), l’unico che a buon diritto possa essere ascritto a tale corrente[10], con le sue funamboliche combinazioni terminologiche, l’estrema rarità delle forme lessicali e la tensione fonica che informa i versi, cui si accompagnano l’ermetismo contenutistico e la messa in forma di un immaginario schiettamente marcabruniani. Difatti la cobla III del componimento intenzionalmente suggerisce la tecnica compositiva del poeta, che interlaccia cars, bruns e tenz motz per plasmare l’eterna lotta fra Joven (rappresenta esso i soudadiers, come in Marcabruno, o designa la categoria dei nobili alla quale il poeta stesso appartiene?) e Malvestatz: in una prospettiva apocalittica che apertamente rimonta a Marcabruno, la malvagità prende piede fino a causare il declino del mondo “civilizzato”.
Raimbaut non esita neppure a tentare la via della chanson leu, distinguendo anche terminologicamente, come Giraut, tra vers e chanso: dei sei componimenti del suo corpus definiti chanso, Pos trobars plans (PC 389, 37), Apres mon vers vueilh sempr’ordre (PC 389, 10), Aissi mou (389, 3), A mon vers dirai chansso (PC 389, 7), Amors, cum er? Que faray? (PC 389, 8) e Ben s’eschai q’en bona cort (PC 389, 20), nessuna è esente da un intento latamente parodico o presenta contenuti o strutture metriche schiettamente pertinenti al trobar leu.[11] Ancora, sottolinea di Girolamo, le sortite rambaldiane nello stile di stampo leggero hanno il più delle volte un intento provocatorio, rappresentando esse un’esplicita concessione alla nuova moda stilistica, in cui il conte proclama di eccellere ugualmente.[12]
La tensione fra una scrittura dai toni rovinosi e un poetare cortese, a tratti frivolo, ma certo gradito ai più è risolta magistralmente da Raimbaut, che si fa campione nella prassi di un modo di trobar schiettamente aristocratico ed elitistico, il trobar car o prim o ric che, attraverso il recupero formale del trobar naturau marcabruniano, si configura come sintesi e al contempo superamento delle due maniere: dello stile lieve esso accoglie la chiarezza e la nettezza dei contenuti, dello stile oscuro la ricchezza formale e metrico-ritmica. Il trobar ric, pur nella sua pluralità di textures e applicazioni che ne fa il poeta-funambolo Raimbaut, rappresenta il tentativo d’inglobare in una sola realtà poetica la duplicità inerente al trobar sin dalle sue origini[13], il suo movimento oscillante e contraddittorio di apertura e chiusura della forma e dei contenuti che è, in ultima analisi, il movimento stesso dell’Amore, soggetto/oggetto primo del canto lirico.
Raimbaut attraversa, nel corso della sua feconda carriera poetica, gli stili più disparati, sempre giocando con i registri linguistici per informare delle liriche uniche, dense di una virtuosità che si esprime soprattutto nel modo di maneggiare i lemmi, le rime e i ritmi. Esattamente in questa “ricchezza” formale dimora una delle caratteristiche precipue del trobar car.
Da un punto di vista strettamente metrico, Raimbaut si mostra un sincero innovatore nell’adoperare un numero considerevole di rime differenti all’interno della medesima cobla (fattore che comporta l’aumento delle rime isolate), servendosi di rime grammaticali (fino ad allora impiegate solamente da Marcabruno), di parole-rima, rime femminili, rime imperfette o similari, rime interne etc.[14]
Uno degli artifici metrici che egli impiega con maggior frequenza, e che rappresenta un’altra delle peculiarità del trobar ric, è l’impiego di rime rare e preziose (rimas caras). Ed è significativo che ben 21 degli schemi metrici del nostro trovatore siano unici, non avendo essi alcuna corrispondenza all’interno del corpus lirico trobadorico.[15] L’attenzione alla forma, preoccupazione costante nello spirito artistico di Raimbaut, occupa nelle sue liriche un posto essenziale: l’universo metrico-retorico che il poeta vi crea tutt’attorno ne è un segno visibile.
Ora, con la lirica trobadorica siamo ben lontani da una poesia, per così dire, “platonicamente ispirata”[16], e Raimbaut stesso è, in prima istanza, un signore feudale che si diletta a comporre vers e cansos i cui funambulismi e azzardi vi rivelano una poetica attiva e cosciente, mirante soprattutto all’immediata fruizione (performativa) da parte dei cavalliers e degli altri nobili astanti. [17] Risulta pertanto comprensibile l’interesse che il signore d’Aurenga mostra per le parole, minimi frammenti ed essenziali dell’opera poetica, che devono essere ben selezionate e intessute sul testo, quasi cesellate anzi, dal poeta che gaiamente le assembla e combina.[18]
Alla luce di queste considerazioni, si fa sempre meno marcato il confine fra gli altercanti nella tenso. Si aggiunga, come giustamente evidenziato da Riquer, che il professionalismo di Giraut rappresenta una marca costante nelle sue liriche, anche in quelle visibilmente più leggere e “umili”. Egli è ottimamente capace di coniugare uno stile sentenzioso, oscuro e tortuoso col più puro lirismo (si pensi alla splendida alba Reis glorios, verais lums e clartatz), maneggiando con egual forza poetica l’una e l’altra maniera di trobar.
Si ha infine l’impressione che Giraut e Raimbaut radicalizzino (entrambi in sede teorica, più che pratica) l’opposizione certo al tempo oggetto di discussione tra clus e leu, per risolverla a vantaggio di ciò che sta più a cuore all’uno e all’altro: una poesia aperta e disponibile a tutti per l’uno, la bella forma aurea destinata ai pochi eletti per l’altro.
Concludiamo con una considerazione a latere: la tenso sullo stile fa eco a un altro tipo di dibattito che si sviluppò in ambito trobadorico negli stessi anni: la capacità degli uomini ricchi e potenti di elevarsi all’amore cortese. Nel famoso joc partit Bem plairia, seingner en reis (PC 23, 1 = 242, 22), probabilmente datato anch’esso – come la tenso – al 1170, Giraut de Bornelh si schiera fortemente contro i ric ome sobranser, non nascondendo al re in persona la propria critica opinione:  Sim sal Dieus, seingner, mi pareis | de dompna qu’entent e valer | que ia non failla per aver, | ni de rei ni d’emperador, non fassa ia son amador, | so m’es vis, ni no l’a mestier; | car vos ric ome sobransier | non voles mas lo iauzimen (vv. 17-24 ed. Sharman 1989, p. 390): «Dio mi salvi, signore, ma io credo che una dama che apprezza il valore non cada mai in errore per denaro, e che non faccia mai suo amante un re o un imperatore; così m’è parso, e non ne avrebbe vantaggio, poiché voi, uomini ricchi e arroganti, non ne volete che il godimento». A questi e a più veementi attacchi Alfonso II d’Aragona risponde con pacatezza, fino ad ammettere che potere e ricchezza, facendo eccezione per la sua persona, costituiscono degli ostacoli effettivi all’amore cortese.
Raimbaut d’Aurenga, per parte sua, nel sinventese A mon vers dirai chanso (PC  389, 4) protesta violentemente contro l’opinione diffusa secondo la quale una dama non dovrebbe accettare la corte di un uomo d’alto rango, poiché questi non lo merita: il rics hom, infatti, possiede delle qualità inalienabili date dall’alto rango di appartenenza, perciò non è mai sconveniente ricercare il suo amore (cobla V).[19]
Come ben osservato da Erich Köhler, «in Raimbaut è evidente il tentativo dell’aristocrazia di assumere un ruolo determinante nell’elaborazione delle nuove concezioni cavalleresche non solo attraverso una particolare maniera stilistica ma anche con direttive morali e politiche».[20]
Raimbaut d’Aurenga vede, così, nello stile oscuro e difficile, nel trobar clus, un linguaggio esoterico dell’aristocrazia, il cui compito è difendere come sua rigorosa esclusiva la conoscenza del vero amore, mentre Giraut de Bornelh attribuisce alla piccola nobiltà non solo lo stile semplice, il trobar leu dunque, ma anche la diffusione dell’ideale cortese-cavalleresco insito nella fin’amor.
 
2. anatz, II persona plurale del verbo anar, è lectio di E, normalmente in Appel, Kolsen e Anglade (base E), è accolta da Pattison che pure ha come base Da.
 
6. Pattison adotta la lezione di DaN2 so que a totz es comunal, con dialefe. Milone stampa so que a totz es cominal, non avente alcun riscontro nella tradizione, sostenendo che l’oscillazione dei testimoni ER (que vas totz es cominal E c’a nos totz es cominal R) conferma la presenza della dialefe, ma in posizione differente rispetto a DaN2.[21]
Comunal (< lat. COMMUNIS) è aggettivo centrale nella lirica in oggetto: è comune ciò che è apertamente disponibile a tutti, non connotato da distinzioni di rango o schiatta. Se una tale qualità – inferisce Raimbaut – è tanto apprezzata, allora tutti saranno uguali. È fondamentale che sia proprio Raimbaut, nobile signore d’Aurenga, a pronunziare quella che sembra un’ipotesi piccata e provocatoria, respinta nel momento stesso della sua formulazione (si noti il tono polemico della richiesta Eram platz…que sapcha che si ripete al v. 4 Aisom diguaz), poiché contraddicente il principio di elitismo aristocratico.
Come suggerito da Roncaglia, il verso 6 potrebbe essere un’allusione diretta, da parte di Raimbaut, alla lirica La flors el vergan (PC 242, 42), vv. 36-45: Car s’ieu ioing ni latz | menutz motz serratz | puois en sui lauzatz | qan ma razos bona | par ni s’abandona; | c’om ben enseignatz | si bei ve, | ni mon dreich capte, | non vol, al mieu escien, | c’a totz chant comunalmen (ed. Sharman 1989, p. 169): «Se io unisco e allaccio tante serrate parole, poi ne sono lodato quando quel che ho ben espresso appare e si lascia andare; ché un uomo capace di ben intendere, se ben vede e sostiene quel che è giusto per me, non vuole – penso – che io canti per tutti senza distinzioni». Giraut, quasi contraddicendo la posizione assunta nella tenso, si mostra critico – ai limiti del disprezzo – nei riguardi di coloro i quali non ben accolgono le sue liriche, additati per questo come non ben enseignatz.
 
7. Il futuro seran dei testimoni DaN2 (seraun E) è concordamente accolto con favore dagli editori rispetto alla lectio singularis di R, recante il condizionale foran. Milone predilige quest’ultima soluzione, in quanto lectio difficilior che ben si adatta al contesto e al tono generale della cobla: se il trobar fosse quel che pensa Giraut, allora tutti sarebbero eguali.[22] Le due forme verbali sono, ad ogni modo, paleograficamente valide e fra loro sostituibili.
Roncaglia avanza l’ipotesi di porre un punto interrogativo alla fine del verso, così traducendo i vv. 5-7: «Ditemi questo: se tanto apprezzate ciò ch’è alla portata di tutti, allora dunque tutti saranno uguali?».[23] D’altro canto, Sharman inserisce un punto interrogativo all’altezza del v. 6, leggendo: «Tell me this: do you have such a high regard for what is available to everyone?»[24] e interpretando il si del v. 5 come un avverbio piuttosto che come congiunzione condizionale. Non ritenendo necessario agire sul testo nell’uno e nell’altro senso e interpretando il v. 5 come introducente una proposizione condizionale, si predilige in questa sede l’impiego di una punteggiatura meno marcata, e si sostituisce alla fine del v. 7 il punto e virgola dell’edizione di Pattison con una virgola.
 
8. Il valore del senhal Linhaura, con il quale è designato uno dei due altercanti nella tenzone, è stato per la prima volta palesato nel 1894 da Adolf Kolsen, in nota al lavoro monografico dedicato a Giraut de Borneil.[25]
Con una brillante intuizione, oggi concordemente accolta dalla critica, il Kolsen ha indicato nel nome fittizio un riferimento alla figura di Raimbaut d’Aurenga, basando la propria tesi su quattro osservazioni: 1. la presenza del nome di Raimbaut nelle rubriche dei testimoni D e N2; 2. la vicinanza nel poetare e la rilevanza a quel tempo acquisita dal signore d’Aurenga in ambito lirico, che spinge Giraut a comporre al modo di Linhaura (en l’escuoill Linnaura); 3. l’origine provenzale di entrambi, che dovette renderli facilmente noti l’uno all’altro[26]; 4. la morte precoce del Linhaura cui Giraut dedica il suo celebre planh, S’anc iorn agui ioi ni solatz (PC 242, 65).
Sappiamo che Giraut frequentò la corte di Raimbaut, dove ebbe modo di entrare in contatto con Gaucelm Faidit e Peire Rogier, e dove probabilmente incontrò anche Bernart de Ventadorn.[27] È possibile che un sincero affetto e una costante frequentazione caratterizzassero la relazione fra i due trovatori, giacché il senhal occorre un totale di nove volte in quattro componimenti del corpus di Giraut (PC 242, 17, 37, 14 e 65), e lo stesso tono del compianto funebre rivela un vivo dolore per la scomparsa dell’amico, avvenuta – se si dà valore all’ipotesi dell’identificazione di questi con Raimbaut – nel 1173.
Proprio la sesta stanza del planh è rilevante, fra tutte le altre, per la descrizione ivi contenuta del carattere del defunto signore: Ar es morta bella foudatz | e iocs de datz, | e dos e dompneis oblidatz. |Per vos si pert pretz e dechai. | Tro part Velai | maint pro n’esdevenrant savai, | cui vos fotz guitz e compaigniers | cum hom apres de bons mestiers. (vv. 41-48 ed. Sharman 1989, p. 405): «Ora è morta bella follia e gioco di dadi, e donne e donneggiare. Per voi si perde pregio e decade. Fino a Velay e oltre molti prodi ne diverranno cattivi, poiché voi foste loro guida e compagno, e sapevate come un uomo dovesse comportarsi».
Linhaure vi emerge come un uomo cortese, dotato di grande liberalità, parimenti dedito al gioco dei dadi e al domnejar. Di lui sappiamo anche che fu un trovatore, certo di gran livello se lo stesso Giraut sceglie deliberatamente di comporre un vers alla sua maniera in Ges de sobrevoler no.m tuoill (PC 242, 37), vv. 55-57: E pero veiatz en l’escuoill | Linnaura vers de trobador, | e no.m n’aiatz per gabador | si tant rics motz mi passal cais! (ed. Sharman 1989, pp. 155-156): «E però ecco un vers alla maniera del trovatore Linnaura, e non consideratemi vanaglorioso se una così ricca parola mi attraversa le labbra!».[28]
Tale senhal è ancora adoperato, ma più tardi, dal trovatore Gaucelm Faidit in ben otto componimenti (PC 167, 2, 35, 37, 45, 48, 53, 60, 64), una costanza che ha permesso all’editore Jean Mouzat di raggruppare i poemi nei quali compare Linhaure sotto l’etichetta “poémes de Provence”, costituenti a loro volta il nucleo più antico del corpus del trovatore limosino.
Cinque fra gli otto poemi facenti parte del più ristretto “gruppo Linhaure” nominano N’Agout, verosimilmente Raimon d’Agout, l’alto barone e signore di Saut e del paese d’Apt (nel Marchesato di Provenza, poco lontano da Orange) tra il 1170 e il 1204 circa. Questi ricevette nella sua corte autori del calibro di Élias de Barjols, Peire Vidal e Cadenet, e fu protettore dello stesso Gaucelm durante la prima parte della sua carriera letteraria, che ebbe verosimilmente inizio pochi anni prima del 1170, sotto l’influenza della scuola cortese di Ventadour.[29] 
Ora, Raimon d’Agout era vicino e parente di Raimbaut d’Aurenga, i cui possedimenti si trovavano sul cammino che, dal Limosino, conduceva alle terre di Agout. Costui era inoltre, per il suo matrimonio con Isoarde de Die, parente della contessa Beatrice de Die, la prima trobairitz a noi nota che, stando alla di lei vida provenzale[30], fu legata al trovatore d’Orange.
Il fatto che il Linhaure di Gaucelm si trovi sovente accostato proprio a N’Agout fornisce perciò un indizio aggiuntivo sul possibile referente del senhal che, secondo l’opinione di Mouzat, è il medesimo per Giraut e Gaucelm.[31]  Soffermandoci sulla qualità delle apostrofi a Linhaure nel corpus di Gaucelm Faidit, si osserverà come questi si rivolga al collega con tono confidenziale e referente al contempo: talvolta egli gli confida le gioie che Amors gli ha riservato, assieme invitandolo a non temere per il suo benessere, come emerge nella canso Per l’esgar (PC 167.48) vv. 49-60: Mos Estuis, | volgra vis | lo gasardon qe-m fai | Amors, sai | ce-m ten gai, | e mos Linhaures fis: | qu’er, no-m creia | nuls damagies; | e-l rics gages | creis, ce-m deia, | e-l gens dos, | esser saubutç per els dos (ed. Mouzat 1965, p. 115): «Vorrei che il mio Estuis vedesse le elargizioni che mi fa Amors, cosa che mi tiene qui gaio, e anche il mio caro Linhaures: che egli non creda che io avrò alcun danno; e che entrambi sappiano che crescono i bei doni e le ricche ricompense che (Amors) mi destina».
Talaltra Gaucelm gli dona delle novelle che lo riguardano, con naturalezza e familiarità, come appare dalla tornada di Pel joi del temps qu’es floritz (PC 167, 45): Linhaure, puois vos no-m vitz | ai estat en gran temenssa (ed. Mouzat 1965) «Linhaure, da quando non mi avete visto, io son stato in grande angoscia».  
Il Linhaure cui Gaucelm Faidit si rivolge così di frequente doveva dunque rappresentare un individuo a lui molto vicino, un amico forse, certo un confidente di alto rango o persino un protettore; difatti, questi è ripetutamente menzionato nelle tornadas, luoghi dai trovatori eletti per l’appello alla domna e per l’indirizzo al proprio patrono.
Se, come dopo Mouzat è generalmente accettato, il Linhaure menzionato da Gaucelm Faidit e il Linhaure di Giraut de Bornelh coincidono, bisogna allora domandarsi quale sia il valore intrinseco del senhal.
Kolsen, nella sua monografia su Giraut de Bornelh del 1910, ha avanzato la brillante iipotesi che il senhal celasse un prezioso tour de mots, generato dalla sovrapposizione terminologica di linh “lignaggio” e aur “oro”, a sua volta richiamante il toponimo di Aurenga.[32] Sia che il soprannome sia stato elaborato dallo stesso Raimbaut, sia che gli sia stato applicato, esso avrebbe evocato l’alto valore della sua schiatta, facendo al contempo riferimento al maggiore possedimento terriero del nobile trovatore.
Accanto alla proposta di Kolsen si deve porre l’ipotesi di tutt’altra natura di Tobler, il quale per primo ha proposto, sebbene in forma embrionale, l’identificazione che sarà al centro dei successivi studi critici :«rapprocher le nom d’Ignaure (du Lai d’Ignaure) de Linhaure, en supposant que cette dernière forme était sortie de N’Ignaure, n étant devenu l par dissimilation, et l s’étant incorporé au nom dans la suite». [33]
Confutando Kolsen in un articolo datato al 1939 e divenuto celebre per le ipotesi ivi contenute, Rita Lejeune ha sostenuto che difficilmente avrebbe potuto Aurenga generare una paretimologia così evidente, tanto più che il senhal si presenta sovente nella duplice forma –aure e –aura, e l’origine del toponimo nulla ha a che vedere con aur-, dacché deriva dal latino Arausica.[34] Alla Lejeune va senza dubbio il merito di aver dato vita al “caso Ignaure”: partendo dalla considerazione che accanto a Linhaura/Linhaure si presenta come variante in numerosi testimoni manoscritti la forma Ignaure[35], ella ha supposto l’esistenza di una leggenda circolante nel Midi prima del 1170 (data di composizione della tenso) avente come protagonista il fedifrago libertino Ignaure/Ignaures/Linaura colto in flagranza di adulterio e duramente punito dai gabbati mariti.
Di questo nucleo leggendario si sarebbero fatti portavoce, in forme e misure differenti, Arnaut Guilhem de Marsan (I), Crétien de Troyes (II), e Renaut (de Beaujeu?) (III).
I) La letteratura del Midi ci tramanda forse la prima menzione di un personaggio di nome Linaura nell’Ensenhamen di Arnaut Guilhem de Marsan. Il testo, conservato dal solo manoscritto R (f. 133r. e v.), è un poemetto gnomico-didascalico in versi (628 senari a rima baciata) destinato all’educazione cavalleresca e quindi amorosa del giovane nobile debuttante nello sfarzoso mondo della società cortese. La sua datazione oscilla fra gli anni 1170 e 1180.[36]
Sotto il profilo formale e contenutistico, l’Ensenhamen non ha in sé nulla di particolarmente innovativo, dacché esso si inserisce nel corteggio dei testi didattico-cortesi che, tra la seconda metà del XII secolo e la seconda metà del XIII, accompagnano e in certa misura normalizzano la produzione lirica trobadorica, fornendo cataloghi di regole finalizzate all’appropriazione, all’interno di un’ideale società feudale, di un altrettanto ideale profilo erotico-cortese.
Nella sezione del testo relativa ai vv. 195-290, l’autore cita sette modelli d’amore cortese, indicandoli come i  «[…] premiers amadors | que pus agron d’amors | e pus en gazanhero | e pus en conquistero»[37] : Paride, Tristano, Enea, Linaura, Ivans, Apollonio di Tiro e re Artù.
Linaura fa dunque la sua prima apparizione all’interno di una lista di eroi appartenenti alla tradizione novellistica d’amore, mediante una tecnica – quella dell’enumerazione – anch’essa tradizionale nelle chansons de geste. Benché l’identificazione di episodi specifici e la contestualizzazione dei singoli personaggi siano per noi assai difficili da reperire, vista l’esiguità dei riferimenti nel poema e le poche linee dedicate all’uno o all’altro eroe, i nomi evocati da Arnaut dovevano certo essere noti al vasto pubblico, e ancora più chiaramente collocabili in un definito e condiviso orizzonte d’attesa.[38]
Mentre le sezioni dedicate agli eroi che lo precedono si esauriscono nel giro di pochi versi, Arnaut decide di soffermarsi e indugiare su Linaura con un certo piacere narrativo, tanto da modellare, condensata in sedici versi, una vera vicenda da novella, nella quale il protagonista figura come un autentico dongiovanni, bramato e amato da tutte le dame. Di lui sappiamo che ebbe ben quattro donne – giacché quattro è il numero dei mariti che ne vendicarono l’onore – e che la sua fine, scoperto l’inganno, fu atroce: Cfr. vv. 217-32: De Linaura sapchatz | com el fon cobeitatz | e com l’ameron totas, | donas en foron glotas, |entrol maritz felon, | per granda trassion, | lo fey ausir al plag. | Mas aco fon mot lag, | que Massot so auzis |en fo, so cre, devis | e faitz catre mitatz | pels catre molheratz. | Ses ac la maystria | dedintre sa bailia, | entro que fon fenitz | e pels gilos traitz (ed. Sansone 1977): «Di Linaura sappiate come fu desiderato e come l’amarono tutte le donne e ne furono bramose, finché il marito fellone, a gran tradimento, lo fece uccidere durante un convegno. Ma fu molto deplorevole che Massot udisse ciò: e Linaura fu, così credo, smembrato e fatto in quattro parti dai quattro mariti. Costui ebbe l’abilità[39] in suo potere fin quando fu ucciso e tradito dai mariti».
II) Il carattere per così dire licenzioso del personaggio arnautiano identifica e qualifica un altro cavaliere dal nome consimile: la letteratura del settentrione ci tramanda difatti un Ignaure, e il suo intermediario è il più noto e imponente romanziere che il medioevo ci abbia trasmesso: Chrétien de Troyes. La celebre scena del torneo del Roman de la Charrette (1178-1181 c.a.), nella quale Lancillotto si accinge a mostrare tutto il suo valore per piacere all’altera Ginevra, è preceduta dalla sfilata di chevaliers tournoyeurs, vissuta attraverso gli sguardi e i commenti della regina e delle sue damigelle poste nelle logge. Tra i valorosi combattenti ecco comparire il bretone Ignaure: Et veez vos celui dejoste | qui si bien point et si bien joste | a cel escu vert d’une part, | s’a sor le vert point un liepart, | et d’azur est l’autre mitiez : | c’est Ignaures li covoitiez, | li amoreus et li pleisanz (vv. 5783-89 ed. ROQUES 1958): «E vedete quel cavaliere vicino, che così bene attacca e giostra, con un leopardo dipinto sul verde, e d’azzurro ha l’altra metà: costui è Ignaure il desiderato, l’amoroso e il piacente». L’intera sezione riguardante il torneo di Noauz dovette esser stata composta ad hoc se, come lo specialista di araldica Gerard J. Brault ha dimostrato, i vessilli dei cavalieri sono storicamente attestati e hanno referenti reali.[40] Con queste premesse Luciano Rossi ha potuto sostenere che il personaggio letterario d’Ignaure nella Charrette, mediante l’allusione allo stendardo del cavaliere, richiamante specificamente l’emblema degli Orange successivo alla fusione con un ramo della casata dei Baux, altri non fosse che lo stesso “cavaliere-trovatore” Raimbaut d’Aurenga.[41]
III) Lo stesso nucleo leggendario sopra menzionato avrebbe poi prodotto, un secolo più tardi, il tragicomico episodio dell’amatore libertino narrato dal non meglio noto «Renaut»: il Lai d’Ignaure o Lai du prisonnier.[42] Il poema, in 664 versi e in lingua d’oïl, è trasmesso dal solo manoscritto 1553 (ff. 485-488), appartenente al fondo francese della BNF e databile al 1284.
Ignaure incarna qui l’intrigante figura di un cavaliere bretone amabile e piacente, prode e liberale, amante di ogni più bella cortesia, tantoché si circonda di poeti e giullari con i quali compone musiche silvestri per l’avvento del maggio.  Grazie alle qualità cortesi di cui fa sfoggio e alla gaiezza che lo contraddistingue, egli riesce a farsi amante di dodici dame, inizialmente inconsapevoli di partecipare tutte dell’amore dello stesso uomo. L’azione è messa in moto da un caso fortuito: incontratesi in un giardino, le donne decidono di cimentarsi in un gioco, simulacro profano della confessione religiosa, in cui ciascuna è chiamata a rivelare il proprio tradimento. Scoperto dunque l’inganno ai loro danni e ferite nell’orgoglio, le dodici dame prendono la decisione di mettere personalmente a morte il libertino (v. 243), che tuttavia riesce a scamparla risolvendosi a scegliere una sola fra le amanti, secondo l’uso comunemente accettato (v. 365). Lo scioglimento sembra giungere a quest’altezza del componimento, quando un nuovo caso occorre a sollecitare la fabula, giacché una soffiata d’un sordido losengier informa i mariti dell’intero accadimento. Ignaure è finalmente catturato e fatto prigioniero dai mariti gabbati nel giorno della festa di San Giovanni, mentre le dame intraprendono immediatamente un aspro digiuno, sollecite della sorte dell’infelice amante. Ignaure è smembrato e il suo cuore e i suoi organi genitali sono serviti alle inconsapevoli dame che, obnubilate e rese fameliche dall’inedia, lo trangugiano: Mangié avés le grant desir | si vous estoit em plaisir | car d’autre n’aviés vous envie. | En la fin en estes servie! | Toutes, partirés au deduit | de chou que femme plus goulouse; | en avés assés en vous douse? | Bien nous sommes vengié del blasme! (vv. 568-575 ed. Lejeune 1938): «Avete mangiato l’oggetto del desiderio che vi dava grandissimo piacere, poiché non avevate voglia d’altro. Alla fine ne foste servite! Ho ucciso e smembrato il vostro amante: tutte avete condiviso con gioia ciò di cui la donna è più golosa; ne era abbastanza per tutte e dodici? Ben noi ci siamo vendicati dell’affronto!».
La caratteristica comune al Linaura dell’Ensenhamen, all’Ignaures presente nel Lancelot e all’Ignaure di cui scrive Renaut è dunque, a ben vedere, la sua natura amoureuse, tratto su cui tutti incardinano la descrizione e le vicende del personaggio.
Ciascuna versione, beninteso, ha le sue peculiarità: basti pensare alle dame sedotte, di numero indeterminato in Chrétien, esse divengono quattro nel poema d’Arnaut e addirittura dodici nel Lai di Renaut.
Per restringere il campo ai due soli episodi più estesi, ovvero l’Ensenhamen e il Lai, noteremo che Arnaut Guilhem de Marsan menziona un tale Massot (v. 226) che non si ritrova altrove; non è chiaro chi costui rappresenti, se sia da identificarsi nel marito a cui è da attribuire la trappola mortale tesa a Linaura o in un semplice malparliere.[43] Ancora, non vi è alcuno smembramento perverso né genitalifagia, «bizarrerie sadique et baroque avant le temps»[44], nel racconto occitano.
Nella pletora di consonanze e dissonanze che sussistono fra i testi in questione, prima Maurice Delbouille poi Luciano Rossi hanno voluto inserire la lirica rambaldiana Lonc temps ai estat cubertz (PC 389.31).[45] Nel celebre gap la persona loquens lamenta difatti d’aver subito la medesima sventura del protagonista del lai: un’ipotesi che però si giustifica solo postulando la presenza, come già Lejeune, di un nucleo leggendario primitivo (contenente forse il dettaglio della castrazione) da cui Raimbaut dovette attingere per costruire il suo gap.[46]
Il merito di Rossi è nell’aver integrato l’iniziale congettura di Kolsen con quanto finora esposto sull’eroe del lai, ipotizzando che fosse stata la somiglianza del nome lui applicato con quello del dongiovanni a suggerire all’aurengate la possibilità di stabilire una più marcata identitas mediante il gap Lonc temps, secondo il costume dell’interpretatio nominis.[47]
Se questa congerie di proposte fosse vera, allora Raimbaut, baloccandosi con l’evidente assonanza fra il senhal con cui i sodali lo designavano e il nome d’Ignaure (nelle sue molteplici varianti), volle forse offrire un’immagine provocatoria e smaliziata della sua figura di poeta amante, dotato della medesima intemperanza amorosa e pertanto colpito dalla stessa nefasta fortuna occorsa al protagonista del lai.
L’originaria spiegazione formale del senhal offerta dal Kolsen sembra tuttavia, ad oggi, la più esauriente, poiché motiva pienamente la prima sillaba di Linhaure/Linhaura.
Ci sembra interessante richiamare invece, per una diversa interpretazione della seconda sillaba, il Pirot, secondo cui il gioco di parole potrebbe celare anche «lignée du vent».[48] Un’ultima, stimolante proposta, giunge infine da Luciana Borghi Cedrini che, cogliendo un suggerimento della Lazzerini[49], vi ravvisa l’interferenza del lemma aureza, “follia”, che pure sovente ricorre nel corpus dell’aurengate.[50] 
Di fronte a un panorama così variegato e a tratti contraddittorio possiamo chiederci se le due linee interpretative – quella facente riferimento a Arnaut-Chrétien-Renaut e quella puramente linguistica – non possano forse convivere e armoniosamente completarsi l’un l’altra. La questione rimane aperta.
 
8 e ss. Giraut si dispone a controbattere all’incalzante e aggressiva apertura del suo collega. Il suo tono è più dimesso e in evidente apertura verso le diverse possibilità che l’arte del trobar offre: non si lamenta certo se ciascuno troba a son talan, secondo la propria naturale disposizione e il proprio desiderio. Egli si dà pensiero del giudizio del suo pubblico il quale maggiormente apprezza un canto leggero e di immediata comprensibilità.
Nom corelh: il verbo corelhar nella diatesi media assume il significato di “se plaindre, s’inquiéter”. R reca la variante querelh, < querelhar, di eguale valenza semantica.
 
9. Rigettiamo la lezione di Pattison si quec s’i trob’a son talan e accogliamo la congettura di Milone – anche in Harvey-Paterson – si quecs troba a son talan, sostenendo che tutti e quattro i manoscritti hanno cercato di far fronte a un verso percepito come ipometro a causa della presenza dello iato. Il verbo nella diatesi media, inoltre, non può avere significato attivo, dato da tutti gli editori che hanno messo a testo la lezione, di “comporre”.[51] Per il suddetto verso Roncaglia richiama Guglielmo IX, Companho, farai un vers [qu’er] covinen (PC 183, 3), v. 6: Qui la trob’a son talen.[52]
 
10. Mas eu son jujaire d’aitan, lezione di DaN2 (N2 iutiaire) si oppone a mas me eis vueill iutgar d’aitan E - mas me eis vueill iutgar d’aitan R. Milone ritiene la lezione di ER facilior, avanzando l’ipotesi che essa possa rappresentare una glossa entrata a testo. Appel, Kolsen, Riquer e Sharman accolgono tutti la lezione di ER, e così anche Harvey e Paterson, che però avanzano dei dubbi circa la possibilità che il me possa avere la funzione di dativo etico.[53]
 
11-12: Si segue qui senza dubbio il testo di Pattison: la lezione dei testimoni DaN2, recante la costruzione con soggetto implicito, appare, come osservato da Roncaglia, difficilior e di maggior pregio.[54]
 
13. Venansal, vernassal < lat. *VERNACEALEM, derivato da VERNA, “lo schiavo nato in casa”, con il significato di “vile, servile”.[55] Pattison traduce «common to all», Riquer «humilde», Anglade «facile à comprendre pour tous».
 
15 e ss.. trepelh, “trapestio” < germ. *TRIPPON, rappresenta la confusione dei fatz (< lat. FATUOS) del v. 18, della plebaglia informe che mai potrà comprendere e perciò apprezzare so que plus car es, perché non lo conoscono né loro interessa. Se nella prima cobla Linhaure si mostrava interessato – ma con sarcasmo – nel comprendere i motivi che muovono una scrittura semplice e comunal, nella seconda cobla a lui destinata egli si rivela apertamente sprezzante, ai limiti della maleducazione, nei riguardi dei destinatari del canto leggero, gli stessi che non loderanno mai (e forse hanno persino disprezzato) lo stile del conte. Cfr. a tal proposito i vv. 1-6 di Aissi mou (PC 389, 3): Aissi mou | un sonet nou | on ferm e latz | chansson leu, | pos vers plus greu | fan sorz dels fatz (ed. Pattison 1952, p. 125): «Così do inizio a un nuovo sonet nel quale chiudo e allaccio una canzone leggera, poiché un vers più difficile fa diventare sordi i folli».
Si noti che R reca la variante trebalh, deverbale < lat. TRIPALIARE, “torture, tourment, souci”.[56]
 
16-17. Le lezioni di DaN2 ed ER si oppongono nettamente fra loro:
 ER                           … que hom am tan
                                               l’avol col bo el pauc col gran.
 DaN                      … que ja ogan
                                               lo lauzol bon el pauc el gran.
La lezione di ER, accettata da Appel, Kolsen, Salverda de Grave e ancora da Riquer si scontra con la lezione tradita da DaN2 e seguita da Pattison e Milone.
La prima lezione forza a interpretare, nota Roncaglia[57], gli aggettivi avol, bo, pauc e gran come sostantivati nel senso dell’astrazione: se una resa in tal senso tiene ancora per avol e bo, essa suscita delle perplessità per pauc e gran; inoltre, lo stesso significato della cobla risulta  ambiguo: Raimbaut riconoscerebbe nel suo trobar cose «cattive e buone, grandi e piccole», inaspettatamente accogliendo con favore un livellamento interno alla sua stessa poesia affatto antitetico a quanto dichiarato in principio della tenzone. D’altra parte, Roncaglia non ritiene neppure soddisfacente la seconda lezione: il ja ogan del v. 16 sembra qualificarsi come un riempitivo poco congruente al contesto, oltre al fatto che distugge la simmetria delle antitesi attraverso la coordinazione di un solo aggettivo positivo a due negativi.
«Sembra dunque che si debba concludere riconoscendo nel nostro passo una “diffrazione di lezioni”, cui non si può ovviare se non in via congetturale, attraverso un’integrazione delle testimonianze».[58]
Egli congettura perciò una struttura del tipo: quel lauzon tan (o qu’ho amon tan, o qu’ho aujon tan) | l’avol col bo el pauc col gran, ottenuta combinando le due differenti lezioni, e traduce: «che lo gradiscano allo stesso modo i dappoco e i valenti, la gente volgare e gli spiriti aristocratici».
L’intervento di Roncaglia è stato illuminante, seppure non totalmente dirimente: si segue in questa sede l’edizione di Pattison pur dando al testo il significato aggiunto da Roncaglia.
 
22-24. Il significato del passo è opaco, ma possiamo supporre – sulla scia di Roncaglia e Milone – che Giraut voglia far presente al collega la difficoltà (l’affan) che gli comporta comporre in uno stile più semplice. Raramente Giraut tace, difatti, lo sforzo compositivo a lui richiesto da una scrittura piana qual è quella che il suo pubblico gli domanda; così vediamo, ad esempio, in Leu chansonet’e vil (PC 242, 45), vv. 8-10 «Qu’eu dic q’en l’escurzir | non es l’afanz, | mas en l’obr’esclarzir» (ed. Sharman 1989, p. 283): «Dico che la difficoltà non è nello scurire l’opera, ma nel renderla più chiara»; o ancora in La flors el vergan (PC 242, 42), vv. 19-21: «Que si m’esforses | cum levet chantes | mieils ester’assatz.» (ed. Sharman 1989, p. 168): «Ché sarebbe meglio se mi sforzassi a cantare in stile lieve», dove la non naturalezza dell’operazione poetica è tradita dall’impiego del verbo s’esforsar, che pure ricompare nella medesima accezione nella tornada di Non puesc sofrir c’a la dolor (PC 242, 51), vv. 71-76: E vos entendetz e veiatz | qui sabetz mo lengatge | qoras que fezes motz serratz | s’era nols ay ben esclairatz. | E sui m’en per so esforsatz | qu’entendatz quals chansos eu fatz (ed. Sharman 1989, p. 219): «E se ho mai composto parole serrate, voi, che conoscete il mio linguaggio, sentite e vedete se ora non le ho ben rischiarate. E ho fatto uno sforzo affinché voi comprendeste quali canzoni compongo».
24. Mazan, -anh s. m.  < celt. *MAZA “bruit, tapage, tumulte” (FEW), in Pattison «popular acclaim». Il lemma ricorre più volte nel corpus di Giraut, sia con connotazione positiva (dolz mazans, bels mazans, gen mazan), sia con connotazione negativa (fols mazans).[59]
 
28 e ss. captal: lemma centrale nella tenzone, per il quale seguiamo l’interpretazione di Paolo Canettieri, rendendolo con il corrispettivo italiano “capitale”. Canettieri ha fatto luce sui rapporti che la tenso intrattiene con il mondo dell’economia: da un lato, la terminologia di carattere economico che costella il testo, dall’altro il fatto che essia sia impostata e giochi sul principio del «valore dei beni determinato dalla quantità degli stessi».[60] Raimbaut ha avuto modo di rimarcare, al v. 21, che ciò che è più car, più prezioso, meno comune e per questo più raro, vale di più. Giraut però non sembra condividere tale principio, e anzi a questo ne oppone uno affatto discordante: solo il canto che si diffonde apporta al trovatore un sicuro captal. Per Giraut, dunque, il capitale del canto è quello della soddisfazione di sentire i suoi versi ripetuti tal e cal da chiunque, anche dai fatz cui spregiamente aveva fatto cenno Raimbaut al v. 18. Di contro, la cobla V è interamente destinata alla chiarificazione, da parte del conte, del suo personalissimo concetto di captal: egli si fregia del preziosismo della propria merce, ammettendo apertamente che non gli importa se non si diffonde (v. 31 mi non cal se tot non s’espan), poiché mai le cose vili furono dignità: per questa ragione – e qui egli espone con chiarezza il principio di cui sopra – l’uomo apprezza più l’oro che il sale, perché l’oro, più raro e più prezioso del sale, ha maggior valore; e de tot chant es atretal.
 
32. C’anc gran viutatz: c’anc granz viutatz DaEN2 car gran vieutatz RI; Milone congettura, e mette a testo, que anc viutatz, ipotizzando che l’oscillazione fra i testimoni celi una probabile dialefe que anc. Non ritenendo la congettura necessaria, si segue l’edizione di Pattison.
 
33. denhtatz: < lat. DIGNITATEM; denhatz E diutaz Da deutatz N2 dieutatz R si motivano con una cattiva lettura, da parte dei copisti, del manoscritto di base.
 
34. L’espressione, certo di tono proverbiale, risulta però estremamente studiata: nota ancora Canettieri che Raimbaut non contrappone, ad esempio, un metallo più vile ad uno più prezioso, secondo un topos assai frequente, ma sceglie come secondo termine di paragone un oggetto, il sale, non prezioso ma senza dubbio utile: «In sostanza, Raimbaut sembrerebbe mettere in atto una proporzione secondo cui il proprio canto sta all’oro così come quello di Giraut sta al sale: l’uno è prezioso, ha valore è destinato a pochi, ma è sostanzialmente inutile, l’altro ha scarso valore, è destinato a molti, ma è utile».[61] Quel che Raimbaut sostiene, insistendo sull’alto valore della sua arte che non s’espan è, in ultima analisi, la carestia, in senso stilistico forse ma senza dubbio in termini di elitismo sociale.
Interessante la lezione dei testimoni ER aver: in E essa genera un chiaro errore metrico – il verso risulta ipermetro – ma il copista di R, avvedutosene, corregge il verso dando vita a una lezione sintatticamente poco scorrevole ma interessante: e mays prez’ om aver que sal.
 
36-38: La risposta di Giraut non è chiara e l’intero passo è di problematica interpretazione.[62] Nei primi due versi in apertura della cobla, Giraut vuol forse alleggerire, con una punta d’ironia polemica, il peso dell’argomentazione di Raimbaut: il canto è da considerarsi sulla base del consenso dei veri innamorati, poiché esso è – nell’ottica del limosino, s’intende – in prima istanza canto d’amore, contenutisticamente significante ancor prima che d’alta qualità formale. L’appello di Giraut «apre la via alla convergenza delle battute successive, nelle quali appunto, presso l’uno come presso l’altro dialogante, la preoccupazione amorosa si sovrappone alla preoccupazione stilistica».[63] Non giudicando opportuna la congettura di Pattison, si rende al v. 37 la lezione dei testimoni ER, conformemente a Milone e Roncaglia: il tradito es non presenta problemi dal punto di vista grammaticale, in quanto forma ridotta della seconda persona plurale di esser (etz).
 
38. si n’ai mais d’affan: DaN2R d’afan (Da affan) E d’enfan. La lectio singularis di E, rigettata da tutti gli editori, è accolta a testo da Sharman, che stampa: e pero sim val mais d’enfan | mos sos levatz: «and yet I prefer to hear my melody uplifted by a child». Harvey e Paterson accolgono la lezione in quanto difficilior rispetto ad afan, già apparso in rima al v. 23. Milone non ritiene però l’argomentazione sufficiente: se l’infrazione rimica può configurarsi come criterio dirimente all’interno di una canso d’amore, non lo è per una tenzone, meno soggetta a questo tipo di restrizioni formali.[64] Si sceglie in questa sede di mettere a testo la lezione tradita dalla maggioranza dei testimoni, ritenendola formalmente e semanticamente valida: l’affan e l’esfors del trovatore nel comporre in uno stile lieve ricorrono quasi ossessivamente nel corpus del trovatore limosino, a segnalare la difficoltà che tale  operazione gli provoca. Tuttavia, pur avendo egli mais d’affan da questo tipo di scrittura, il suo canto ci guadagna poiché si diffonde: accogliendo la lezione  di DaN2R Giraut starebbe dunque ribadendo quanto già detto ai vv. 27-28, ovvero che il canto non porta altro cabtal che la soddisfazione, per il suo autore, della diffusione di quanto ha composto.
 
39. Mos sos lev’atz: la congettura qui accolta è di Roncaglia (lo seguono Milone e Riquer), che offre una soluzione plausibile alle divergenze interpretative della sezione in oggetto: il vocabolo at < lat. APTUM, ben documentato nella lingua dei trovatori, costituirebbe con il verbo levar una locuzione dal significato di “trarre profitto”, “guadagnarci”.[65]
 
41. lom deissazec Da lom deissaçec N2si oppone a lonh de sa gen E luenh de sa gen R; la lectio di ER è chiaramente facilior, e si motiva ipotizzando una cattiva lettura del manoscritto di base, cui ER (o, probabilmente, il loro subarchetipo) devono aver ovviato banalizzando il luogo problematico.
 
41-42. La chiusura della cobla VI dà l’impressione che Giraut voglia esaurire umoristicamente l’argomento, smorzando il tono del dibattito e sostenendo che «his poems are fitting for only the very lowest classes, not being good enough for those who have the slightest pretension to rank».[66] In effetti il cleuasmo al v. 42 sembra capovolgere in ischerzo l’intero componimento, tuttavia un altro ostacolo interpretativo deriva dall’assenza di attestazioni del termine sesal. Kolsen segue R, stampando a cui om non deia censal! ove censal ha il significato di «rente payée à title de cens». Tuttavia la lectio singularis di R a cuy hom non deya sensal, che inoltre reca l’immotivato congiuntivo deia, sembra aver riscritto un locus problematico; peraltro non vi è alcuna evidenza che sensal significhi “rendita” o “pagamento”.[67] Roncaglia rigetta la traduzione di Pattison «person of a higher rank», e definisce sesal “termine tecnico” derivante dal lat. HOMO CENSALIS, da Giraut adoperato come equivalente a HOMO (CANTOR) STIPENDIARIUS.[68]
 
43 e ss. Come già anticipato, la concusione della tenso ha una struttura non canonica: la quarta e ultima coppia di strofe assume difatti l’inconsueta forma di un frammento di canzone d’amore. Linhaure dichiara d’essere troppo assorto in pensieri d’amore per concentrarsi su qualsiasi altra cosa (vv. 43-49) e a questa confessione Giraut risponde con eguale mestizia. La tenso assume dunque in conclusione le sembianze di un canto preparato dai due trovatori per una festa d’addio.
Così ecco che il nostro congedo si carica di maggior valenza: Linhaure si duole della partenza del poeta, e Giraut sostiene di esser costretto a partire perché deve raggiungere una corte reale. Non è manifesto se sia la Spagna il luogo verso cui questi è diretto, ma è fuor di dubbio che i due dovettero trovarsi assieme per un periodo di tempo imprecisato alla corte del signore d’Aurenga, il che spiegherebbe la costante deferenza mostrata dal trovatore limosino nei riguardi del compagno di tenzone.
 
48. Un altro evidente caso di opposizione fra le due famiglie: tan pes Da N2 tan pres ER. Le lezioni sono indifferenti, ma la critica si divide: Milone seleziona tan pes che, oltre a essere lectio difficilior, ben si adatta al contesto («el pensament d’un fin joi natural impedeix qualsevol altre pensament»)[69]; Harvey e Paterson, che seguono il testimone E, ne accolgono senza difficoltà la lezione, motivando pes con la possibile perdita di un segno diacritico (un tilde?) nella tradizione.
fin joi natural: l’espressione, come rileva il Kolsen, ricorre identica in Peire Rogier, Tan no plou ni venta (PC 356, 8), vv. 5-6: Qu’amors me capdelh’em te | mon cor en fin joi natural (ed. Nicholson 1976, p. 50): «Ché amore mi capeggia e mi tiene il cuore in una perfetta gioia naturale»; e in Bernart de Ventadorn, Lo gens tems de pascor (PC 70, 28), vv. 33-40: Las! E viure quem val | s’eu no vei a jornal | mo fi joi natural | en leih, sotz fenestral | cors blanc tot atretal | com la neus a Nadal (ed. Appel 1915, p. 164): «Ahi lasso! E a che mi serve vivere, se non vedo ogni giorno la mia perfetta gioia naturale, a letto, sotto la finestra, col corpo bianco come la neve a Natale, così che sia possibile misurare, congiunti, se siamo uguali [nell’amore]?»
 
50. vermeil: «la parte externa del escudo, o sea aquella que se muestra al enemigo, a veces iba teñida de rojo. La expresión significa, pues: “si la dama se me muestra hostil”».[70]
 
59. La tenso fu composta tra l’inverno del 1168[71] o poco prima del Natale del 1170[72], quando Giraut si apprestava a lasciare la dimora del ricco signore d’Aurenga per raggiungere una corte reale (v. 59), che si suppone essere quella del monarca spagnolo Alfonso II di Aragona, benché De Riquer non escluda le corti di Navarra o di Castiglia. Purtroppo, la cronologia dell’opera poetica di Giraut de Bornelh è troppo fluttuante per permetterci di rilevare con esattezza gli spostamenti del trovatore. Egli ebbe certo modo di visitare numerose corti spagnole, come testimoniano la tenso tra Giraut e il re Alfonso II di Aragona Be me plairia, senh’En reis (PC 23, 1a = 242, 22), così come la tornada di Ges de sobrevoler nom tolh (PC 242, 37), menzionante i sovrani Alfonso VIII di Castiglia e Ferdinando II di León, o ancora l’elogio del bos reis del navars (v. 57 ed. KOLSEN 1894, I, p. 18) indirizzato a Sancho il Savio in S’era no poia mos chans (PC 242, 66). Le canzoni di Giraut offrono ulteriori indizi del suo passaggio – e dello stanziamento – in terra spagnola, come la chansoneta plana Tot suavet e de pas (PC 242, 79), la quale nelle intenzioni del trovatore dovrebbe «entrels chatalas | passar en Proensa» (vs. 7-8 ed. KOLSEN 1894, I, p. 154); Mas, com m’ave, Dieus m’aiut (PC 242, 43) è composta nei pressi di Urgel in Catalogna (vv. 49-51), e così in Sil cors nom ministr’a dreg (PC 242, 70) egli menziona un possibile ritorno d’Espanha (v. 28).
 

[1] Si vedano l’analisi e le interessanti osservazioni in Canettieri 2009.
[2] Ricordiamo per inciso che la vida di Giraut (dov’è definito maestre dels trobadors) e quella di Peire d’Alvenhe testimoniano la stima di cui il trovatore limosino godette presso i suoi contemporanei. Egli è citato da Matfre Ermengaud nel Breviari d’Amor (vv. 33489-98) e da Raimon Vidal in So fo el temps qu’om era gais (vv. 261 e 322), Abrils issi’e mais intrava (v. 1546) e Las Razos de trobar (vv. 386-396).
[3] Cfr. per la questione Lazzerini 2010, pp. 87-90, de Riquer 2011, p. 467-70.
[4] v. infra, commento al v. 8
[5] Sharman 1989, p. 38.
[6] Riquer 2011, p. 473.
[7] Cfr. i vv. 1-6 della lirica Be m’es plazen (PC 323, 10): «Be m’es plazen | e cossezen | qui s’ayzina de chantar | ab motz alqus | serratz e clus | qu’om nols ten ja de vergonhar» (ed. Fratta 1996, p. 40). In Lo foills el flors, e⸱l frugz madurs (PC 323, 19) Peire prende le distanze dal volgo, cui manca dottrina e serenità (vv. 17-18), e dichiara di essere intenzionato ad affinare la sua arte in onore dell’assenatz Sens (v. 27) che gli ha permesso di comporre cercando «els ditz escurs | et en razos, | de dir ses motz romputz» (vv. 31-33 ed. Fratta 1996, p. 129).
[8] Cfr. Topsfield 1975, p. 152.
[9] Cfr. Paterson 1975 pp. 93-95.
[10] Una chansoneta fera (PC 389, 40) «belongs to the series in wich Raimbaut was shifting from the style of Marcabru to the chanson leu» (Pattison 1952, p. 77), e così anche Assatz m’es bel, in cui Raimbaut si propone di scrivere chiaramente, abbandonando lo stile oscuro sotto la pressione di chi per quello lo ha criticato; tuttavia l’opera finita è lontana dall’essere la chanson leu promessa al v. 4 e «in the end he produces a not too simple specimen of trobar car» (Pattison 1952, p. 124). Cfr. anche Paterson, secondo la quale «Cars douz is Raimbaut’s only serious attempt to compose in the trobar clus. In all other song where elements of it occour, the intention and the effects of using a clus framework are humorous» (Paterson 1975, p. 169).
[11] Cfr. Paterson 1975, p. 173 e ss.
[12] Di Girolamo 1989, p. 104.
[13] Cfr. Roubaud 1971, p. 41.
[14] In particolare, Raimbaut è il primo trovatore a impiegare una sovrabbondanza di parole-rima nella medesima pièce, come mostra la canso della flors enversa, dove il poeta mescola e combina le parole-rima fra loro secondo uno schema che si ripete in tutte le coblas. Questa organizzazione metrica, è noto, agirà come base per la costruzione della sestina di Arnaut Daniel.
[15] Ancora, si considera Raimbaut il primo trovatore ad aver utilizzato l’espediente metrico delle rimas capcaudadas (cf. PC 389, 30), che permette di legare fra loro due o più coblas ripetendo l’elemento rimico di una data strofe nel primo verso della strofe successiva. Se l’elemento ripetuto è una parola o una frase, si ha allora lo schema delle coblas capfinidas (cf. PC 389, 1 e PC 392, 5 ma da Pattison attribuito a Raimbaut d’Aurenga), che rappresenterà uno degli artifici metrici maggiormente adoperati nella lirica siciliana.
[16] « κοῦφον γὰρ χρῆμα ποιητής ἐστιν καὶ πτηνὸν καὶ ἱερόν, καὶ οὐ πρότερον οἷός τε ποιεῖν πρὶν ἂν ἔνθεός τε γένηται καὶ ἔκφρων καὶ ὁ νοῦς μηκέτι ἐν αὐτῷ ἐνῇ » (Platone, Ione, 534b).
[17] Ricordiamo le rivendicazioni di poetica di Guglielmo IX, Ben vuelh que sapchon li pluzor (PC 183, 2), vv. 1-7: Ben vuelh que sapchon li pluzor | d’est vers sis de bona color | qu’ieu ai trag de mon obrador, | qu’ieu port d’ayselh mestier la flor, | et es vertatz, | e puesc en trair lo vers auctor, | quant er lassatz (ed. Eusebi 2003): «Voglio che da ogni parte si sappia se è di buon colore questo verso che ho fatto uscire dal mio atelier, poiché io porto il fiore in questo mestiere, ed è la verità, e posso chiamare a testimone l’autorità del vers, quando sarà lasciato».
[18] Il rapporto che Raimbaut intrattiene con le parole è inscritto nella lirica trobadorica sin dalla sua origine, e lo sarà fino al suo declino: le immagini della lima, della fucina, della tessitura, dell’interlacciamento delle parole al suono, come rimarca Roubaud, ritornano senza sosta nelle composizioni dei trovatori di tutte le generazioni, da Guglielmo IX ad Arnaut Daniel, attraverso Raimbaut d’Aurenga, Bernart Marti, Peire d’Alvernhe; cfr. Roubaud 1971, p. 39 e Zink 2013 pp. 88-89.
[19] Cfr. Köhler 1976, p. 61; si veda Pattison 1952, p. 93 per una differente interpretazione.
[20] Köhler 1976, p. 136.
[21] Cfr. Milone 1998, p. 149.
[22] Cfr. Milone 1998, p. 149.
[23] Roncaglia 1967-68, p. 129 e 146.
[24] Sharman 1989, p. 396.
[25] Cfr. Kolsen 1894, pp. 44-51.
[26] In Ar auziretz (PC 242, 17), v. 72, Giraut fa riferimento alla città di Lers, al di là della quale si trova il suo Linhaure (Mon Lingnaures lai part Lers!). Lers è una città sul Rodano, vicina a Bellebuissonne, allora appartenente alla diocesi d’Orange. Per una testimonianza si veda il testamento di Guy de Saint-Martial, datato al 6 ottobre 1410, in Barthélemy 1882, p. 491.
[27] Cfr. Sharman 1989, p. 45; Pattison 1952, pp. 24-25.
[28] «Possibly Giraut de Bornelh hints at trobar ric when he says he has utteres a rics motz in claiming to follow the style of Linhaure» (Paterson 1975, p. 181).
[29] Mouzat 1965, p. 31.
[30] In Chabaneau 1885, pp. 77-78.
[31] «Nous sommes persuadés qu’à la même époque, dans le même canton et le même milieu courtois, le surnom-senhal de Linhaure n’a pas pu désigner deux personnages différents» (Mouzat 1965, p. 32). Un ulteriore indizio sarebbe contenuto nella tornada di Una dolors esforciva (PC 167, 64), dove accanto a Linhaure compare Peironet, personaggio identificato dal Mouzat in Peire Rogier, la cui permanenza alla corte di Raimbaut d’Aurenga sarebbe stata cognita a Gaucelm (cfr. ancora Mouzat 1965, pp. 149-150; nondimeno richiama alla prudenza Nicholson 1976, pp. 9-10, mettendo in rilievo la manifestazione del senhal in altri contesti trobadorici, dov’è chiaro che esso non allude a Peire Rogier). Le ipotesi del Mouzat sono respinte in toto da Rita Lejeune, la quale ritiene di ravvisare, celato dal senhal gaucelmino, il conte Raimon IV di Tolosa, signore del Midi intrattenente relazioni amicali con Raimon d’Agout e avente soprattutto la fama, fra i suoi contemporanei, di grande amatore e libertino (cfr. Lejeune 1939, p. 166 e ss.). La corte di Tolosa non era certo estranea a Gaucelm, che anzi nei suoi poemi menziona Raimon V, conte di Tolosa e Saint-Gilles, marchese di Provenza, sotto i senhals di Mon Bel Sobeira e Sobeiran d’Argenssa. Tuttavia proprio quest’ultimo sembra, dalla tornada di Jauzens en gran benananssa (PC 167, 31), godere della medesima reputazione del figlio in termini di interesse per le dame, sicché farne un argomento di identificazione con Raimon IV risulta in un certo modo forzato. Ricordiamo per inciso che la Lejeune seguiva la cronologia indicata da Jeanroy, che poneva l’inizio dell’attività poetica del trovatore limosino intorno al 1185, laddove Sharman la retrodata al 1160 (Sharman 1989, p. 1).
[32] Cfr. Kolsen 1910, p. 45, nota I.
[33] Citato e tradotto in francese da Lejeune 1939, p. 155. Maurice Delbouille, che ha dedicato ai senhals designanti Raimbaut d’Aurenga un articolo divenuto celebre, ha riformulato in altro senso l’ipotesi di Tobler, supponendo che dietro l’oscillazione grafica del nome nei testi provenzali vi sia un riflesso del suo transfert dal Nord della Francia al Midi, ove l’allotria è mascherata mediante l’aggiunta di una laterale prostetica (cfr. Delbouille 1957, p. 61). La spiegazione non appaga Pirot che osserva:«Nous ne connaissons pas d’exemples, en toponymie ou en onomastique occitanes, d’une forme qui aurait fait précéder un i initial d’un l.» (Pirot 1972, p.514).
[34] Cfr. Lejeune 1939, p. 155.
[35] Così per Giraut de Bornelh, in Ar auzirets (PC 242.17), v. 72, M reca ignaure, N ignaures, Q ignares, Sg ignaire; e ancora nel planh il senhal compare due volte, al v. 14: AB Hygnaure, a Yngnaure, M Ynhaure, C Ignaures, Q Ignaure, e al v. 19: A Ignaures, B Hygnaures, a Ynaures, M Ynhaures, C Ignaures, Q Inaures.
[36] A Rita Lejeune va il merito di aver identificato e collocato storicamente Arnaut Guilhem de Marsan e il suo insegnamento (in Lejeune 19392), prima d’allora genericamente datato attorno al 1200, per cui si veda, a titolo esemplificativo, Chabaneau 1885 p. 124.
[37] vv. 183-186, ibid.
[38] I versi 195-200 sembrano alludere al celebre Roman de Troie di Benoît de Saint-Maure, e il riferimento a Eneas ai vv. 209-216 ci conduce invece all’altrettanto famoso Roman d’Eneas, della seconda metà del XII secolo. I pochi versi dedicati alla leggenda tristaniana non sono in grado di suggerire alcun preciso riferimento, e lo stesso si dica per Ivain (ma cfr. Delbouille 1957, p. 61 n. 8, secondo cui « il faut admettre une mauvaise lecture » nell’unico testimone manoscritto, dal momento che il personaggio in questione condivide più tratti non con l’Yvain ma con il Gauvain cantato da Chrétien de Troyes), Artù (vv. 281-290) e Apollonio di Tiro (vv. 251-280), la cui vicenda fu una delle più diffuse nel Medioevo, ma la cui menzione è talmente indeterminata da non permettere l’identificazione del texte-source.
[39] Si predilige un termine neutro quale “abilità”, “capacità”, “scienza” (cfr. Rn e Levy s.v. maestria, maistria), laddove Sansone propone “scaltrezza” (cfr. la traduzione del passo in Sansone 1977, p. 140).
[40] Cfr. Brault 1997, p. 27 ss.
[41] Cfr. Rossi 1987, pp. 60-61.
[42] Rita Lejeune ha fornito per prima un’edizione critica e completa del testo, indicandone l’autore in Renaut de Beaujeu (cui è attribuito il Biaus Descouneüs o Bel Inconnu).
[43] Per l’identificazione del personaggio di Massot, Pirot nelle sue Recherches (cfr. Pirot 1972 pp. 508-9) ha avanzato una proposta interessante, indicandone l’etimo nel lat. *MATTEA > MATEOLA, “martello”, e associandolo al sostantivo massola al v. 24 di Marcabru, Pois la fuoilla revirola (PC 293.38); massot sarebbe dunque non un nome proprio ma comune, qui indicante metaforicamente l’organo genitale maschile. Il verso esibisce, tuttavia, gravi problemi di esegesi, e il lemma stesso rappresenta un assoluto hapax in provenzale. Osta a una lettura oscena del passo anche l’incongruenza di un siffatto riferimento con un testo didattico come quello di Arnaut, «dal momento che tutta la sua opera […] è rigorosamente aliena, allergica addirittura, da un formulario che non sia quello della più pudica cortesia» (Sansone 1977, p. 163).
[44] Mouzat 1969, p. 214.
[45] Si vedano i fondamentali contributi di Delbouille 1957 e Rossi 1983.
[46] Non ritenendo pertinente addentrarci più del necessario nelle spinose questioni di provenienza della narrazione originaria di Linhaura/Ignaure. preferiamo rimandare alle illuminanti ricerche di Pirot 1972, pp. 517 e ss.
[47] L’interpretatio nominis è un procedimento retorico invalso già in età classica ma ampliamente adoperato nella narrativa medievale consistente nell’esposizione della pronominatio (ovvero dell’appellativo usato da altri, l’altrimenti detto senhal), attraverso la quale si corrobora il legame di interdipendenza tra personaggio e suo appellativo.  Secondo l’uso, dunque, quest’ultimo precede e non segue l’illustrazione stessa del nome. Nota ancora Rossi che l’illustrazione da parte di Raimbaut del suo stesso senhal risponde a un’attitudine che gli è propria e che è da lui replicata nel caso dei senhals di Tristan e Carestia (per cui cfr. ancora Rossi 1983 pp. 45-46).
[48] Pirot 1972, p. 514.
[49] Lazzerini 2010, p. 124.
[50] Cfr. Borghi Cedrini 2012, pp. 83 e ss.
[51] Cfr. Milone 1998, p. 149.
[52] Roncaglia 1967-68, p. 131
[53] Harvey-Paterson 2010, p. 1068.
[54] Cfr. Roncaglia 1967-68, p. 131. Ma si veda Milone 1998, p. 151, che ritiene facilior la lezione di DaN2.
[55] Roncaglia 1967-68, p. 131.
[56] Levy s.v. trebalh, tribalh, trabalh.
[57] ibid. ; Roncaglia 1978, pp. 213-14,
[58] Roncaglia 1967-68, p. 133.
[59] Cfr. Roncaglia 1967-68, p. 135.
[60] Cfr. per l’intera questione il ricco articolo di Canettieri 2016.
[61] Cfr. Canettieri 2016.
[62] Cfr. per le varie proposte Roncaglia 1967-68, pp. 136 e ss.
[63] ibid.
[64] Cfr. Milone 1998, p. 155.
[65] Roncaglia 1967-68, p. 143.
[66] Pattison 1952, p. 176.
[67] Harvey-Paterson 2010, p. 1072.
[68] Roncaglia 1967-68, p. 144.
[69] Milone 1998, p. 155, p. 158.
[70] Riquer 2011, p. 458.
[71] Kolsen 1894, I, p. 61.
[72] Pattison 1935, p. 22 e id. 1952, p. 41.