Commento

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I: questa cobla, come la II, è quella che presenta meno incertezze nella tradizione manoscritta, sia per la posizione nel componimento sia per varianti presenti al suo interno.

I, 1: Can vei: incipit che ritroviamo variato in Can vei la flor, l’erba vert e la folha . alauzeta: l’allodola nei manoscritti occitanici pone un problema di distinzione tra articolo e sostantivo, per cui è praticamente impossibile decidere tra la forma l’alauzeta e la lauzeta; l’Appel sceglie la seconda, ma in Dante, che riprende dal provenzale, è attestata la forma “allodetta” (Divina Commedia, Paradiso, canto XX, v. 73: Quale allodetta che ’n aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta / de l’ultima dolcezza che la sazia).

I, 3: s’oblid’e.s: termine della mistica che riporta all’oblio di sé, derivato dal latino oblivium, “dimenticanza”. Testo fondamentale per comprendere questa terminologia è il trattato di Riccardo di san Vittore De quattuor gradibus violentae caritatis (I quattro gradi della violenta carità), risalente al XII secolo. Vengono qui spiegati gli effetti dell’incontro con i gradi più alti dell’amore mistico, esperienza che si contrappone all’amore carnale ma che Riccardo di san Vittore declina prendendo in prestito proprio il lessico erotico, precisando che in rapporto al sentimento di un uomo per una donna, solo il primo livello può essere buono. Il primo grado è l’amore che piaga, cioè la condizione in cui la volontà si sottomette pienamente e l’ardore arriva a occupare qualsiasi pensiero, pur se non in ogni momento; dalla ferita si può quindi fuggire ma non piegare al proprio volere. Il secondo è quello che lega, che non si può comandare e da cui la fuga è impossibile, anche se ancora può essere accompagnato da altre passioni, seppure inferiori. Salendo al terzo si arriva a gettare fuori ogni altro affetto che non serve al proprio desiderio, non si può ricercare né l’utile né tantomeno il necessario, si perde la ragione a tal punto che senza l’oggetto d’amore tutto diviene fastidio; ma ancora si può invocare l’aiuto di Dio perché indichi la giusta via. Nell’ultimo grado si giunge ad una condizione estatica talmente elevata da non poter soddisfare in alcun modo il cuore, preda di un ardore insaziabile che eleva chi lo prova ben oltre le possibilità umane (dal volgarizzamento del 1829 dell’abate don Michele Vannucci: e così l’anima compresa del fuoco del divino amore, e circondata dalla fiamma degli eterni desideri, primamente si scalda, ed appresso si rischiara, ed accendesi, e poi si strugge tutta, e così al tutto vien meno, e disfasi dal suo primo stato).

I, 4: per la doussor c’al cor li vai: verso ripreso letteralmente da Bondie Dietaiuti, rimatore fiorentino della prima metà del XIII secolo, che tradusse liberamente l’incipit di Bernartz nella canzone Madonnamè avenuto simigliante (Madonna, m’èe avenuto simigliante con’ de la spera a l’ascellett’avene, che sormonta, guardandola, ’n altura e poi dichina, lassa, immantenante per lo dolzore ch’a lo core le vene, e frange in terra, tanto si ’namora.). doussor: altro tratto tipico dell’unio mistica (cfr I,3); termine che deriva dal latino dulcedo, “dolcezza”; la dulcedo è una qualità spesso attribuita alla divinità.

I, 5-6: enveyaeu veya: ripresa fonica e etimologica. Il primo termine deriva dal latino invidia, “invidia”; la forma verbale invideo è infatti un composto del verbo video, “vedo”, da cui il provenzale vezer. Il concetto dell’invidia per la “gioia” altrui torna rielaborato in Can vei la flor, l’erba vert e la folha, nel verso car anc me pres d’autrui amor enveya.

I, 7: desse: termine particolarmente desueto nella lirica provenzale, ma attestato due volte in Bernartz, qui e in Conortz era sai eu be; è presente in tre componimenti del più tardo Bertran Carbonel (XIII).

I, 8: lo cor de dezirer no.m fon: altro concetto preso in prestito dal misticismo monastico dell’epoca (cfr. I, 3), a indicare il cuore che fonde per il desiderio (fusio cordis o infusio cordis).
II: anche questa cobla è sempre in seconda posizione e rimane quasi invariata nei diversi manoscritti.

II, 4-5: Tout m’a mo cor…e tot lo mon: tratto tipico di quel processo di espropriazione e espoliazione dato dall’ardente desiderio. Nell’anima non rimane più nulla e nessun interesse ha ciò che non è relativo alla passione, proprio come richiede la fusio. e tout m’a me: unica incertezza di rilievo in questa cobla all’interno della tradizione, che presenta quattro varianti: se (A,C, M, S, U, VeAg) , fe (I, K, R), me (D, E, G, L, P, Q) e sen (N, O, V, X, a). I quattro manoscritti di area occitanica (A, C, E, R) presentano quindi quattro lezioni diverse, tra le quali sicuramente errata è quella di R, che si discosta da tutte le lezioni: que tout m’a.l cor en bona fe.

II, 8: mas dezirer e cor volon: verso che rimane invariato in tutti i manoscritti, tranne che in X

III, 1-2: Anc non agui…de l’or en sai: attacco che evidenzia ancora un’insistenza sull’espropriazione, sulla perdita di sé.

III, 3: en sos olhs vezer: la tradizione si divide in mos (o mes) e sos (o ses). Da notare nel gruppo dei canzonieri provenzali la lezione di R che ancora una volta diverge nell’intero verso: pus ela.m mostret son voler, mentre VeAg è in accordo con P e S. Probabilmente sos è la lezione corretta dal momento che il verso successivo non presenta varianti in grado di giustificare la scelta di mos.

III, 5-6: Miralhs, pusli sospir de preon: distico che rimane invariato in tutta la tradizione manoscritta, probabilmente uno dei più famosi già al tempo.

III, 7-8: c’aissi.m perdei…Narcisus en la fon: dopo la prima, è la cobla più nota dell’intero componimento per l’inserimento della figura di Narciso. Fu Leo Spitzer in un saggio del 1944 a soffermarsi sul “paradosso amoroso”, ossia il poeta distanzierebbe la donna amata per concentrarsi su di sé, in una lirica quindi rivolta all’io. Probabilmente però questa lettura è da ritenersi una sovrainterpretazione moderna. Narcisus: poche varianti ma interessanti: Marcezis in C, Marcelins in N (ma un simbolo diacritico di un copista successivo segnala l’errore e corregge in Narcisus) e Marcilis in E, R, a; quindi il gruppo occitanico diverge dalla lezione presumibilmente corretta. Se per Marcelins non si hanno informazioni, Marcilis potrebbe riferirsi alla figura del re arabo Marsilio, presente nella Chanson de Roland.

IV: cobla centrale nel componimento, sia per la posizione che per la tirata misogina in cui il poeta accomuna tutte le donne, delle quali non c’è da fidarsi poiché nessuna lo aiuta (pois vei c’una pro no m’en te) contro la dama malvagia; che non ha rispettato affatto quelli che sono i compiti propri di una domina.

IV, 3-4: chaptener…deschaptenrai: captener letteralmente “tenere il capo”, come gesto di protezione e atto vassallatico, da intendere quindi come “difendere, proteggere”. Nella lirica occitanica sono attestate ben 272 occorrenze per mantener, mentre per captener solamente 31; da questo dato si può ipotizzare che il termine più usato sia una banalizzazione, quindi la scelta cade su captener perché rappresenterebbe la lectio difficilior. Le lezioni presenti nei manoscritti si dividono tra captener in A,C,D,G, L, M,P,Q,S, U e mantener in E, I e K (manoscritti gemelli), N, O, R, V, VeAg, a. Interessante notare come i manoscritti italiani P, S, U presentino tutti la stessa lezione, che varia invece in VeAg, in rapporti “sospetti” con i suddetti. Il gruppo occitanico ha la lezione corretta in C, mentre E, R, a accolgono la variante più semplice.

IV, 5: una pro no m’en te: variante tra una e nulla; da segnalare E (una) divergente da C, R e a.

IV, 6: destrui e.m cofon: si discostano C, O, R e a, che presentano auci (aussi in R) mentre E ha destrui; discorso a parte per VeAg (art), che modifica moltissimi luoghi del testo.

IV, 7: totas las dopt’e las mescre: le lezioni dei manoscritti oscillano tra dopt (in maggioranza), corretta e lectio difficilior, e autras, probabilmente una banalizzazione; ancora una volta VeAg è l’unico testimone con abores. In questo caso è C (autras) che si allontana da E, R, a (cfr. IV,5 e IV, 6).

V, 2: qu’e. lh o retrai: da segnalare l’errore congiuntivo di P e S, che presentano qe’u.ll lo retrai.

V, 3: car no vol so c’om deu voler: lezione alternativa, que so c’om vol no vol voler, si trova in G, L e S. In V, e non attestato altrove, abbiamo invece queis c’om no vol fa voler.

V,6: et ai be faih co.l fols en pon: verso “misterioso”, praticamente senza riferimenti per capirne la provenienza. La tradizione ci conferma la difficile ricezione di questo passo, addirittura già in tempi molto vicini a Bernartz. Ci troviamo infatti di fronte a una diffrazione, con i testimoni che si dividono offrendo due principali lezioni (tranne C, che ripete qui il verso VI, 6): da una parte de fol (accolto in E, G, N, O, Q, R, S, V), dall’altra com fol (in A, I, K, L, M, P, U, VeAg e a). All’interno di questa principale divaricazione troviamo un altro errore, che accomuna G, Q, S e R i quali sostituisco en pon con un pon.  

V, 8: mas car trop puyai contra mon: altro verso che resta invariato in tutta la tradizione.

VI, 1: Merces es perduda: merces dal latino merces, qui il concetto è legato alla metafora feudale, riferendosi alla ricompensa dovuta dal signore per il servizio offertogli dal suo vassallo; sembra comunque riduttivo tradurlo con “pietà”. Anche qui la tradizione è divisa tra i manoscritti che testimoniano la lezione Merces (in netta maggioranza) e quelli che invece hanno Amors (A, D, E, M, V). Interessante segnalare nel gruppo occitanico, escludendo a che non presenta questa cobla, la lezione di C e R che diverge da quella di E (cfr. IV,5, IV, 6 e IV,7).

VI, 3: car cilh qui plus en degr’aver: si discostano da questa lezione solo V e M, il cui testo riporta en cui aver, da scartare perché con questa variante il testo mancherebbe di senso.

VI, 6: qued aquest chaitiu deziron: verso abbastanza regolare; da evidenziare però VeAg, che come spesso accade accoglie una lezione isolata rispettto alle altre (que my las ab cor desiron), ma soprattutto l’errore congiuntivo di G, Q e U, nei quali a qued aquest è sostituito a ses oils. Interessante in particolar modo la relazione tra Q e U, tra i quali si sospetta una stretta parentela che analizzeremo più specificamente in VI, 8. deziron: termine molto poco utilizzato nella produzione trobadorica, con sole 16 occorrenze all’interno della lirica provenzale; tra queste un’altra sempre in Bernartz, nel componimento Anc no gardei sazo ni mes.

VI, 7:  que ja ses leis non aura be: solo I e K, a conferma della strettissima relazione che intercorre tra questi manoscritti, divergono dal resto della tradizione presentando la lezione que non l’ausa clamar merce.

VI, 8: laisse morir, que non l’aon: verso che non presenta particolari incertezze se non l’errore congiuntivo auon in luogo di aon in D, G, P, S e a bon di Q. Molto particolare è invece il caso di U e Q, gli unici manoscritti che cambiano la prima parte del verso con una variante che ne mostra la parentela, con la lezione di Q che molto probabilmente deriva da quella di U. Quest’ultimo infatti riporta las morz, da cui si genererebbe il lais mor di U.

VII, 2: precs, ni merces, ni.l dreihz qu’eu ai: unica variante, ma che non cambia il significato, è Dieus al posto di precs.

VII, 4: qu’eu l’am, ja mais no.lh o dirai: questo verso crea una divisione all’interno della tradizione, presentando due soluzioni che si spartiscono i testimoni; l’oggetto della “contesa” è chi sia il soggetto che ama, se l’io lirico o la dama: l’alternativa a qu’eu l’am,  in cui è chi canta che compie l’azione di amare (tradito in A, D, E, F, G, L, O, Q, S, V) è infatti qu’il m’am, per cui è il poeta che viene amato (in C, I, K, M, N, P, R, U, VeAg, a). Segnaliamo di nuovo i manoscritti provenzali, con E discostato da C, R e a (cfr. IV,5, IV, 6 , IV,7 e VI, 1).

VII, 5: Aissi.m part de leis e.m recre: piccola variante, d’amor in luogo di de leis in C, I, K e V.

VII, 6: mort m’a e per mort li respon: siamo qui davanti al verso che più di ogni altro resta invariato, anche a un livello di un’indagine semplicemente grafica (tranne che in N, dove gli è preposto un que, che però è da escludere dal momento che aggiungerebbe una sillaba nel conteggio, contravvenendo così al principio di isometria); si può quindi sospettare che fosse uno dei versi più noti già all’epoca.

T: Tristans, ges no.n aurez de me: La tornada presenta una delle varianti che hanno maggiore motivo di interesse; è infatti da inserire nel discorso più ampio riguardante diversi trovatori in dialogo tra loro attraverso i senhal di alcuni precisi componimenti. Innanzitutto c’è da specificare che non tutti i testimoni di Can vei l’alauzeta mover riportano questi ultimi versi; tra questi, poi, abbiamo chi tramanda Tristans, ovvero i manoscritti A, C, E, O e U, e chi invece riporta Tristeza, in G, L, P, Q, S, VeAg. Numericamente è in vantaggio la seconda lezione (in cui notiamo i codici P e S, del gruppo italiano, che si ritrovano d’accordo con VeAg), tuttavia, per più di una ragione, bisogna optare per la prima come quella corretta. Nel gruppo di Tristans abbiamo infatti dei testimoni più autorevoli, oltre che di area provenzale: A, C ed E (nonostante questa lezione sia presente anche O, che invece contamina in più punti il testo); inoltre il manoscritto U, che abbiamo ipotizzato essere imparentato con Q e apografo di esso, ne corregge la lezione. Siamo dunque di fronte a una situazione particolare in cui da un lato l’errore si propaga e in parte fissa il canone del testo, dall’altro invece la lezione corretta apre a una delle questioni più affascinanti legate a questo componimento, ossia l’attribuzione di un’identità particolare al senhalTristans”.

Tristans: il riferimento a Tristano, della cui storia con Isotta scrissero Béroul e successivamente, in una versione più “cortese”, Thomas, appare in cinque testi di Bernartz: Can vei l’alauzeta mover, Can vei la flor l’erba vert e la folha, Lo rossinhol s’esbaudeya, Amors e que.us es vejaire, Tant ai mo cor ple de joya. Dietro questo senhal potrebbe celarsi la figura di Raimbaut d’Aurenga, grande trovatore e conte d’Orange, che in No chant ni per auzel ni per flor si definisce proprio Tristans.