Revisione di Edizione della melodia del Dom, 01/12/2013 - 01:15

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Ogni esecuzione è un'interpretazione, e senza alcuna pretesa di scientificità allego la trascrizione musicale di quanto sarà possibile ascoltare nella registrazione. L'unica trascrizione di autorevolezza filologica del mio lavoro consiste nella trascrizione semi-diplomatica, dove sono notate semplicemente le altezze dei suoni, senza nessun riferimento ritmico. Com'è ovvio, non appena la teoria diventa atto, il lavoro filologico perde buona parte del suo rigore. Dal momento che il canto nasce ed assume significato quando si iscrive in contesto estetico, è a questo criterio che si attiene la scelta esecutiva. Naturalmente gli sforzi dei grandi esperti di filologia musicale che hanno studiato il componimento di Riccardo Cuor di Leone, non sono considerati vani, ed è sulla base delle conoscenze apprese dai loro scritti che si fonda questa interpretazione, che pur non rispettando rigidamente la lettura in chiave modale ne condivide l’ossatura. L'esecuzione si basa sulla lezione dello Chansonnier Cangé: sull'insegnamento di Tischler e Gennrich l'andamento principale è quello scandito dal III modo1. Innanzi tutto si è privilegiato l'uso di una grafia agevole per il musicista, senza varianti né segni che non siano ordinariamente utilizzati nella notazione moderna. La suddivisione in 3/4 mi è parsa la più congeniale per dividere in tre la battuta, ma senza costringere la melodia in un andamento ternario.
Un elemento importante, che è passato inosservato ed è secondo me fondamentale, è la ripetitività dei patterns ritmico-melodici, sulla quale si struttura la melodia. Se si considerano le legature costituite da due note e la nota che segue come due parti di un'unica cellula ritmica, avremo a che fare solo con gruppi melodici ternari. Infatti queste cellule di tre note e due sillabe avrebbero lo stesso valore dei climacus, cioè le legature costituite da tre note cantate su una sola sillaba. Lo stesso schema ritmico è però rintracciabile, basandosi sulle ripetizioni melodiche, anche in tre note cantate ognuna sulla propria sillaba2. Sia questi gruppi di tre note, sia i climacus, sia i gruppi clivis + punctum, sono stati trascritti con due crome legate ad una semiminima, eventualmente allungata in finale di verso. Ho rifiutato l'impiego della terzina, poiché romperebbe bruscamente l'andamento scandito dal III modo.
Osservando lo spartito è possibile notare come si configuri un sistema di patterns ritmici di tre note, che, all'interno del verso si assemblano in diverse combinazioni: ad esempio il primo verso è composto da due patterns formati da un 1/4 puntato + 1/8 + 1/4 – pattern a – e due patterns composti da 1/8+1/8+1/4 (o 2/4 per allungamento in finale di verso) – pattern b –. Queste cellule ritmiche hanno anche un riscontro melodico: il pattern a si mantiene principalmente su una nota o un range ristretto di note e compone una sorta di arsi nello sviluppo del verso. Il pattern b invece può paragonarsi alla tesi del verso; predilige le discese diatoniche3. Da notare come anche i canti gregoriani consistessero in un canto libero ma che si basava su cellule ritmico-melodiche ricorrenti e (si evince) facilmente intuibili, poiché non era necessario notarle in un quadro mensurale.
Il verso 2 presenta un secondo tipo di configurazione ritmico-melodica: pattern a – pattern b – pattern a – pattern b. I versi 3 e 4 ripropongono il medesimo schema: a – a – b – b / a – b – a – b.
Salta all'occhio che i due patterns non hanno uguale durata e non entreranno, secondo lo schema moderno, ognuno perfettamente in una battuta: il pattern a dura 3/4, ma il pattern b dura solamente 2/4. Ai versi 2 e 4 otterremo uno squilibrio, ma solo in apparenza, quando il terzo pattern4, che è di tipo a, segue ad un pattern di tipo b, e comincia quindi sul terzo quarto della seconda battuta, comportando lo scavalcamento della linea di battuta. È forse questo il pregio di questa trascrizione: non bisogna infatti inquadrare le monodie medievali in schemi che non appartengono loro, costringendole in un paradigma di rigide alternanze tra tempi “forti” e tempi “deboli”. Anche Beck quando asserisce che la ternarietà assoluta non è altro che frutto dell'ingegno aritmetico dei mensuralisti, invita a ricordare che il rigore teorico può allontanare dalla realtà pragmatica.
I versi 5 e 6 sono problematici e non pretendo di decifrarli compiutamente, ma ho cercato di dare una veste esteticamente convincente, basandomi su due assiomi: il primo è che il verso 5 rappresenta il preludio al refrain, il momento di massima enfasi; il secondo è che in corrispondenza del tratto verticale che nel manoscritto separa le note dei due versi va rispettata una pausa, che consenta di recepire con la giusta chiarezza entrambe le frasi, le quali se accorpate creerebbero una lunga e dispersiva catena di note. I primi due patterns del v. 5 non pongono problemi. Ma dalla sillaba ma le incertezze crescono, è infatti il punto di maggiore divergenza fra gli editori. In maniera simile alla scelta fatta da Gennrich, si preferisce lasciare che la sillaba successiva (re-) venga cantata sul terzo quarto della battuta, ma facendo appoggiare la sillaba -an- alla battuta successiva, mantenendo integro il parallelismo melodico con il climacus che chiude il verso. Anche la pausa dunque slitterà alla battuta successiva: i due puncta si trovano quindi "sospesi", dove l'elemento di arsi da cui partono è il silenzio. Non si sarà costretti quindi ad allungare eccessivamente la sillaba y- del v. 6, conferendo la dovuta fluidità alla conclusione.

 

1 V. Presentazione degli editori: Gennrich.
2 V.4, sillabe sont li don (do – si – la)
3 Ex: v. 2 sillaba -ment (do si la), sillabe -te – ment non (do – si – la); ma può presentare intervalli diversi: v1: sillabe rai – son (si sol – sol)
4 v. 2 sillabe se do – lan (si – re – si)