Chiaro Davanzati: Rime, a cura di Aldo Menichetti

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Lungiamente portai
mia ferita in celato
e fui temente di dir mia doglienza;
tut<t>o in me 'maginai
vostro prencipio stato,                                                                                  5
credendo in voi campar per ubidenza:
ché la valenza – di voi, donna altera,
fueme pantera – e presemi d'amore
come d'aulore
<che> d'essa <ven> si prende ogn'altra fera:                                               10
così di voi mi presi inamorando;
mercé chiamando, – istato son cherente,
se fosse a voi piacente,
di dare ancor ciò che dimostro in cera.
 
Acciò ch'io più celare                                                                                  15
non posso il mio tormento,
gentil donna, lo dicer mi convene:
tanto mi sforza amare,
ch'io nonn-ho sentimento:
conosco ciò ch'i' ho che da voi vene;                                                           20
e gioia e pene – e quant'ho di possanza
mi veste amanza – più ch'io non so dire.
Del mio ag<g>echire
convene ormai a voi aver pietanza,
ché 'l mio penare a blasmo non tornasse:                                                     25
s'eo più v'adimandasse,
dotto non si paresse ciò ch'io porto:
però voria far porto
del mio lontano ateso in benenanza.
 
Quando penso ed isguardo                                                                         30
la vostra gran bieltate,
in ciascun membro sento li sospiri,
cotanto n'ho riguardo
de lo tardar che fate
non perdan ciò, ond'atendon disiri.                                                              35
Oh i dolzi smiri – e la gaia fazzone!
Del parpaglione – aver mi par natura,
che si mette a l'arsura
per lo chiaror del foco a la stagione:
così m'aven, di voi, bella, veg<g>endo,                                                       40
che mi moro temendo,
cherendo a voi merzede,
ed ancora con fede
che mi doniate, s'ag<g>io in voi ragione.
 
Per lungo atendimento                                                                                 45
ogne frutto pervene
veracemente a sua stagione e loco;
al mio coninzamento
simile non avene,
ché, com' più tardo, più dimoro in foco.                                                       50
Se nonn-ha loco – in voi merzé cherere,
non pò parere – in me vita gioiosa,
ma com' fa l'antalosa
conven ch'io facc<i>a a giusto mio podere,
ch'a l'albero là dove più costuma                                                                 55
sì si consuma – per lo suo diletto:
ed io simile aspetto:
se non mi date, non posso valere.
 
Poi che per me non vaglio,
se da voi non proseg<g>io,                                                                         60
dunque, s'io prendo, vostr'è la fatura:
piacc<i>avi il mio travaglio,
ché, quant'io più vi veg<g>io,
sento lo core in più cocente arsura:
ed ho paura, – se non provedete,                                                                65
però che voi <'l> volete,
poi ched i' voi non ag<g>io,
esendo in vostro omag<g>io;
ed io mi moro e pietà non avete.
Ben fora ormai stagion, tant'ho soferto                                                         70
di voi amar coverto,
d'avere alcuna gioia
anzi cad io mi moia:
poria campar, se voi mi socorete.