Canti di scherno e d’amore, traduzione di Pietro Tripodo, con un saggio di Paolo Canettieri, Roma, Fazi, 1997
È sul terreno dello stile, nei meravigliosi versi che pertengono all’ispirazione, che troviamo un Arnaut Daniel vittorioso, apprezzato e imitato da Dante e da Petrarca, tradotto e utilizzato in versi da poeti come Pound o da filologi sensibili alla poesia come Canello, Sansone e Beltrami.
L’innovativa, preziosa traduzione di Pietro Tripodo ha più di un pregio e credo che d’ora in avanti sarà un punto di riferimento costante per il lettore italiano non specialista.
In primo luogo perché questa traduzione riflette in modo organico e complessivo l’impianto della poesia del «miglior fabbro», tutta giocata com’è sulla lingua e sullo stile, in una mimesi pressoché totale con il testo tradotto. Mimesi, sia chiaro, non tanto sul piano delle rime, il cui estremismo sarebbe quasi irripetibile, ma sul terreno dei giochi linguistici e dell’innovazione lessicale. Al punto che l’italiano della traduzione sembra a volte volersi sostituire al provenzale e assumere autonomia (giustificata anche dal fatto che Tripodo è poeta prima che traduttore).
In secondo luogo perché abbiamo qui l’elegante prodotto di un immenso lavoro, messo a profitto in una poesia usuraia e usurante. Un immenso lavoro di tarsia, ruminazione di un testo considerato quasi sacralmente, e di cui, purtroppo, si può dar conto solo in modo sommario. Rispettando la più evidente esigenza trobadorica, Tripodo ha cercato, per quanto gli era possibile, la somiglianza fonica fra le parole di fine verso, inseguendo nella traduzione rime o assonanze con lemmi vicini a quelli provenzali (preferibilmente, mi sembra, trascegliendo quelli documentati nel ‘200 italiano), anche a costo del calco o del neologismo; dove ciò non era possibile ha cercato comunque di mantenere almeno l’assonanza tonica. Sempre in clausola mi sembra da sottolineare il tentativo di fedeltà alle parole bisillabe parossitone, frequentissime nell’originale (la clausola sdrucciola è limitata a VIII 33 e XX viii 2).
Più arduo il tentativo di calco del sillabismo originale: praticamente perfetto e sia pure oscillante da una scansione dialefica duecentesca a una “disinvoltura” sinalefica novecentesca nelle traduzioni da Ia a VI e poi in XV e XVII-XVIII (in tutto la metà dei componimenti); nelle altre questo rispecchiamento metrico è parziale, ma comunque sempre cercato.
Di solito il corpo fonico della parola provenzale è più breve, più breve in particolare il numero delle sillabe grammaticali e quindi, salvo dieresi, il numero delle sedi metriche; come adeguare l’italiano a una lingua che, dunque, a parità di metro, ha dalla sua il vantaggio d’una maggiore densità semantica? (“Inadeguatezza” a cicli risorgente: nella «nostalgia, che qualche nostro contemporaneo nutre, della concentrazione monosillabica inerente alla poesia inglese», come Contini scrive nella prefazione all’edizione Toja di Arnaut Daniel; concetto non del tutto remoto, per il contesto in cui si trova, da quello di Montale nella premessa ai Canti barocchi di Lucio Piccolo: «mi veniva fatto di pensare, non so perché, a quei poeti gallesi — a Dylan Thomas, quando non scriveva da perfetto ubriaco — che sembrano usare una lingua primordiale, di scavo»).
Diciamo subito che, fra i rimedi, quello rischiosissimo offerto dalla tradizione italiana dell’apocope è salvo eccezioni adottato qui a malincuore da Tripodo (al di là d’ogni principio anacronistico potrebb’essere forse allarmante il contrario). A far le spese di questa traduzione imitativa sono, meglio, le congiunzioni subordinanti, più spesso causali, o anche di altro tipo: dunque sono ragioni metriche; ma in qualche caso i nessi sintattici simili o uguali — come in italiano che, ché, sì ché — susseguentisi nell’originale in serie di versi contigui senza, come sembra, intenzioni retoriche ha pure in qualche modo giovato non tradurli: pena, a evitarli altrimenti, rivoluzioni per principio, se non inevitabili, evitate. Sicché, là dove necessario, scompare alla vista una fetta d’ipotassi a favore d’una paratassi asindetica, scandita da interpunzione media o forte.
La febbre mimetica invade tutto l’organismo dell’Arnaut italiano: dalle grafie arcaizzanti alle parole, non solo in clausola. Così il lettore potrebbe trovare alcune ricercatezze di questo italiano leggendo la seconda risposta della genovese nel contrasto bilingue di Raimbaut de Vaqueiras o la Nativitasrusticorum di Matazone da Caligano (qualche clausola analoga nell’Entrée d’Espagne), o Giacomo da Lentini o Paolo Zoppo o Bonvesin de la Riva o Cino da Pistoia o Dante o Petrarca o Antonio da Ferrara o Pietro Aretino o Ludovico Ariosto su su fino a Pascoli, D’Annunzio (i quali ultimi due danno senso francese, ‘mormorare’, a bruire, che in Giordano Bruno aveva significato ‘ruggire’, e che nel Tommaseo-Bellini, dove il verbo è dato per morto, anche voleva dire peggio), Carlo Vallini — in questo secolo, certo, parole come sopravvissute di un antico casato — o qualcosa (soprattutto rime), in sede ironica o straniante, e insieme citazione, e conferma-parodia dell’antico, che rivive nella lettura di Marino Moretti, per fare un altro nome, e infine Zanzotto, Giovanni Giudici: auctoritates tutte peraltro segnalate dal traduttore in postille qui interamente omesse per la natura del volumetto.
Dunque parole rare (croia, andana: e se, per fare un esempio, entrambe oggi in Sandro Sinigaglia, la prima è un flagrante arnaldismo dantesco, infernale — un segno ancora di quella «école de violence verbale», così Contini nella già ricordata Préhistoire, che il trobar clus, anzi Arnaut Daniel, costituì per il nostro massimo poeta —, memore del trovatore anche per il corredo di rime; la seconda era specializzata già nel provenzale antico, ed è registrata nei nostri lessici come ancora viva); varianti metaplasmatiche antiche (s’orgoglia; nellaCanzone di parole fine col senso dell’originale, ‘sdegna’); parole anche attuali ma con significato antico (soggiorna ‘riposa’, ira ‘tristezza’, freddura ‘freddo’); ancora a favore della rima, varianti più rare di già rare parole (broglio ‘brolo’;epistolio, dall’epistolium catulliano, ‘epistola’), o a favore della somiglianza più somigliante possibile paor tradotto ‘pavore’ anziché ‘timore’; inveceenbronc, aggettivo, col più facile ‘in broncio’ anziché col raro aggettivo italiano corrispondente broncio: ma solo perché più somigliante per il suono;grangia, dato ancora per vivo, ‘fattoria d’un luogo pio’, per avvicinarsi al termine originario in clausola agre ‘nido’).
Inoltre calchi di locuzioni resi possibili da uso antico o meno antico: m’è mestieri che (‘è necessario che io’); il bizzarro è al Campidoglio (‘è al culmine’, locuzione proverbiale — esattamente, «montare al Campidoglio» — in una giunta del Tommaseo, nel Tommaseo-Bellini), anche questo per la rima in -oglio; e si può inserire qui il caso della forma ellittica per cui equivalente a ‘per colei a causa della quale’; forzature al fine del calco (ma sovrapposto al fine metrico e, in subordine, anacronistico):culverso, morna (‘scura’; in una lettera di Luigi Pulci è la locuzione verso la mornia ‘all’imbrunire’; cf. fr. morne, ingl. to mourn), crime (umbratilmente esistito, tra Giordano Bruno e Vincenzo Monti) qui coi significati provenzali di ‘accusa’, ‘rimprovero’, ‘diceria’. Non del tutto inutile, credo, aggiungere chetesteso ‘ora’, e anche ‘testé’, è clausola dantesca; retrozara cerca di restituire il prov. reirazar, ‘colpo negativo al gioco della zara’; il significato di appuntarsi(‘attaccarsi, unirsi’, ‘porre il cuore e la mente in checchessia’, ‘arrivare con l’estrema punta’) lo si trova nel Tommaseo-Bellini s. v. appuntare (da punta) ai paragrafi 14, 15 e 16; m’indrappello specchia il m’atropel provenzale; l’it.gomma ritorna alla goma originaria, che significa appunto ‘gomma resinosa’, ‘resina’, quindi ‘balsamo’.
Poi parole antiche che sopravvivono ma confinate in area ancora più specializzata (comba, toma dal verbo tomare). Distorsioni del suono dovute esclusivamente alla rima (duecente, contrafforto, ma questo termine per di più col senso figurato proprio dell’originale); distorsioni (o quasi) nei significati:pedino (‘a piedi’ anziché ‘piedino’, ‘scarpina’), piomba col senso di ‘rinforza col piombo’, ‘impiomba’, senso tutt’altro che trasgressivo quando il verbo ha forma transitiva, ma certo rischioso nel contesto («m’alza e piomba»), e il rischio è dovuto all’ossessione per il calco, qui dall’originario plomba: me pueg e·plomba = ‘mi alza e impiomba’, cioè ‘m’innalza e mi rafforza’. Forme dialettali come ruzza ‘ruggine’, mantenuta nell’uso e già ricordata dal Belli in una sua glossa ad arruzzonita. Pure e semplici invenzioni: imbutiglio (creato, è da ritenere, incrociando il prov. enfonilh con l’it. imbuto); pettiniglio(‘pettignone’, con incrocio analogo); blanda (‘blandisca’); senecchio come finto esito popolare dal seniculum (‘vecchietto’) d’Apuleio. Sempre per maggior somiglianza fonosimbolica, oltreché per vantaggio metrico, espressioni particolari come che non è pari a conca = ‘che non è (fragile) come coppa (di vetro)’; o anche interi versi-monstre come «ché non ho cuor né poter da me scarchi / fermo voler […]», che vorrebbe dire ‘perché non ho il coraggio né il potere di liberarmi del fermo volere’. E ugualmente, infine, a quest’ossessione di perdere il meno possibile son dovuti anche incipit del tipo «Truc Malec io da voi tegno» (‘Truc Malec, sono dalla vostra parte’) o «Son sol che so il sovraffanno ch’è sorto» (‘Sono il solo a sapere il troppo affanno che mi sorge’), senza che tutto ciò potesse nemmeno poi tanto lenire il cruccio che al traduttore è derivato dalla rinuncia a ulteriori avvicinamenti, come quello, per esempio, d’un’ennesima variante incipitaria «L’aur’amara — i broli brancuti».
Nel complesso, si ha un caleidoscopio stilistico che forse non sarebbe spiaciuto ad Arnaut Daniel, e però anche una traduzione poetica di alto livello, oltreché integrale: mi sembra particolarmente lodevole il fatto che Tripodo abbia voluto tradurre non solo i testi canonicamente attribuiti ad Arnaut Daniel ma anche il ciclo dei testi osceni (Ia-Ic) omesso nelle edizioni correnti, nonché i tre componimenti generalmente ritenuti apocrifi (XIX-XXI): è a questo punto chiaro che pure il lettore più dirozzato troverà qui novità emozionanti, dovute soprattutto all’intelligenza e alla sagacia del traduttore, ma anche al fatto che il traduttore, filologo egli stesso, ha sempre letto e ascoltato il filologo di professione.
Una traduzione non facile, certo; ma sono sicuro che sarà ben accolta da tutti coloro che, amanti delle cose difficili e difficilissime, non si arrenderanno di fronte a questo «dire strano e bello», ne percepiranno l’aurea mobilità, epperciò sapranno fare usura di questi versi preziosi.
Appendice: qualche esempio
Arnaut Daniel PC 29.6 (testo di Eusebi 1985 analisi filologica e melodia in Gruber Dialektik 1983, p. 230).
Canso do’ill mot son plan e prim
fas pus era botono’ill vim,
e l’aussor sim
son de color
de maintha flor,
e verdeia fuelha,
e’ill chan e’ill bralh
sono a l’ombralh
dels auzels per la bruelha.
Pels bruelhs aug lo chan e’l refrim
e per qu’om no m’en fassa crim
obri e lim
motz de valor
ab art d’Amor
don non ai cor que’m tuelha;
ans, si be’m falh,
la sec a tralh,
on plus vas me s’orguelha.
Arnaut Daniel PC 29.
Ab gai so cundet e leri
fas motz e capus e doli,
que seran verai e sert
quan n’aurai passat la lima,
qu’Amor marves plan e daura
mon chantar que de lieis mueu
cui Pretz manten e governa.
Arnaut Daniel PC 29.8 (testo Eusebi)
Douz braitz e critz
e chans e sos e voutas
aug dels auzelhsqu’en lur lati fan precz
quecx ab sa par, atressi cum nos fam
ab las amiguas en cui entendem:
e doncas ieu, qu’en la gensor entendi,
dei far chanso sobre totz de tal obra
que no’i aia mot fals ni rim’estrampa.
No fui marritz
ni no prezi destoutas
al prim qu’intrei el chastel dins los decx,
lai on estai midonz don ai gran fam
qu’anc non ac tal lo neps de sanh Guillelm:
mil vetz lo jorn en badail e’m n’estendi
per la bella que totas autras sobra
tan cum val mais gran gaug que no fai rampa.