INTRODUZIONE

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Su Arnaut Daniel il giudizio della critica non è certo unanime, quasi che l’oscillazione di Dante fra la medaglia di bronzo offerta en passant al «cantor amoris» nel De vulgari eloquentia (II ii 9) e quella d’oro attribuita al «miglior fabbro del parlar materno» nel Purgatorio (XXVI, 115 e ss.) si sia proiettata su tutta l’esegesi a venire.

Benché Canello avesse trovato Arnaut Daniel capace di «far vibrare la corda del sentimento», i giudizi espressi dall’inizio di questo secolo sono stati quasi unanimemente negativi. Chi vedeva in Arnaut Daniel un freddo adepto del tecnicismo artificiale e oscuro (Anglade), chi ne biasimava lo stile affettato (Ferrers Howell), chi, sia pur da posizioni ben più autorevolmente critiche verso l’arte trobadorica, ne riduceva la poetica a quella di un ciseleur dai pensieri banali (Jeanroy).

Molti dei critici hanno quindi ritenuto che il giudizio purgatoriale di Dante fosse dovuto esclusivamente alla maestria tecnica del trovatore, senza peraltro comprendere che per Dante, nel momento in cui esprimeva il giudizio, il fatto tecnico era d’importanza vitale nella definizione anche della propria poetica (Chaytor, Hauvette, Toja).

Solo qualcuno, fuori dal coro, affermava che forse l’oscurità e la supposta artificialità dei testi poteva anche essere dovuta a un’interpretazione nel complesso fallace (Lavaud). Le antologie e le storie letterarie più recenti hanno invece notevolmente rivisto il giudizio. Soprattutto da parte dei critici e degli editori italiani, Arnaut Daniel è stato rivalutato per il suo «parlare strano ed avvolto, intessuto di contrasti bruschi ed aspri, con chiaroscuri crudi e linee nude e recise e taglienti» (Viscardi), per l’unità tra forma e ispirazione poetica (Battaglia), per essere il massimo rappresentante di quella poesia in cui «la forma specifica dell’opera d’arte, prima ancora che il suo contenuto, diviene essa stessa ideologia» (Antonelli). Un’ideologia sempreverde, c’è da aggiungere, se è vero che la forma metrica da lui «inventata», quella della «sestina» (qui al n. XVIII), continua ad essere utilizzata da poeti sperimentalisti e da letterati in genere con passioni matematiche. E una fortuna oscillante ma soprattutto italiana: dopo Dante, Petrarca, e poi i molti autori del cinquecento che lo hanno studiato in quanto auctoritas dell’una e dell’altra corona (ma soprattutto della seconda), per arrivare nell’800 alle impareggiabili pagine di Ugo Angelo Canello, giunto dall’«illustrazione» dei Sepolcri del Foscolo (la «lirica forse più bella certo più oscura del Parnaso italiano») all’«illustrazione di questo difficilissimo tra i lirici tutti del Parnaso neolatino» per via della «particolare attrattiva» esercitata su di lui dalle «cose difficili o anzi difficilissime». E su questa strada impervia ritroviamo poi Contini e la sua scuola, i due editori recenti, Perugi ed Eusebi, i cui lavori (entrambi fondativi) si contrappongono per metodo e per quantità, facendo palese quanta sagacia è ancora necessaria per rimuovere tutti gli ostacoli messi da Arnaut e dai suoi copisti sulla strada che Canello aveva cominciato a spianare.

Questo proteiforme Arnaldo Daniello entrato a pieno titolo nelle lettere italiane è stato letto e riletto nelle edizioni sopra menzionate dai nostri autori e dai nostri critici, è stato terreno inesauribile di esercizi filologici e di tentativi di lettura: ciò che ne è venuto fuori è stato soprattutto un discorso sullo stile, e ne era proprio questo il fine, giusta l’origine prima dantesca e poi petrarchesca della nostra tradizione esegetica. Ma tutto sommato, credo che l’Arnaut Daniel trovatore e intellettuale sia ancora tutto da scoprire. L’ipotesi che cercheremo di sostenere in queste pagine è che la sua fosse un’ideologia ludica e allusiva, nata da un probabile sostrato ebraico, sostanziata della cultura scolastica del tempo e quindi non dissimile da quella dei clerici vagantes e dei goliardi. Ma vedremo che si tratta anche di una cultura radicatissima nelle istanze primarie del trobar, con precisi punti di riferimento fra i più sperimentalisti dei suoi compagni di canto.

 

1. Astrucs Non’Amatz

 

Aurelio Roncaglia, dopo aver proposto di rappresentare graficamente l’elaboratissima testura rimica della «sestina» con una stella davidica, si domandava se questo «Arnaldus [...] cognomine Danielis» (così Benvenuto da Imola nel commento al XXVI canto del Purgatorio dantesco) «non fosse egli stesso d’ascendenza ebraica». Mi sembra che l’ipotesi trovi un importante appoggio nel fatto che Arnaut dica di chiamarsi Astrucs (nella canzone XIV, Amoree gioia e luogo e tempo, I strofe): «Car ben am, d’aizo·m clam Astrucs».

Ora, è noto che gli ebrei provenzali e catalani «sintieron predilección por adoptar en su onomástica palabras con cierto sentido poético: Astruc = feliz, afortunado; Maïr o Mayr = perfecto; Bellshom o Bellhom = hombre bello; Benet o Bendit o Beneït = bien dicho o Benedicto; Goig o Joies = alegría; Dolça;? Bonafós, que posiblemente equivale a Astruc; Bonfill, Bonafilla = hijo o hija buena; Bonadona = buena mujer; Bonanasch o Bonanat = bien nacido; Bonjudá o Bonjuá = buen judío; Bonisach = Buen Isaac; Bonsenyor;? Bonavía = buen camino, y también buena conducta, etc.» (da L. Marco i Dachs, Los judíos en Catalunha). La dichiarazione è di sommo interesse nel momento in cui la si riconnette con il secondo nome che il trovatore si attribuisce, Non Amatz: «ma NonAmatz ai nom anquers». Il nome completo che il trovatore viene a dare a se stesso quasi come auto-senhal è dunque Astrucs Non Amatz, ‘Fortunato Nonamato’, dove evidentemente la Fortuna si oppone all’Amore. Notiamo che Amat era un nome piuttosto frequente fra gli ebrei convertiti (e che, invece, non figura fra i nomi d’origine): ad esempio da una lista di ebrei catalani convertiti al cristianesimo si ricava che Magaluff Faquim prende il nome di Joan Amat, Barrahon Marilí diviene Rafel Amat, Maimó Mhabub si fa battezzare Pere Amat (la lista è nel libro di Marco i Dachs sopra citato). Non Amat potrebbe facilmente figurare in questa lista, se si pensa che il frequentissimo nome Nuno (attualmente in castigliano Nuño) in occitanico diventava Nono (ricordo il noto planh, scritto dal trovatore Aimeric de Belenoi per “Nono Sanchiz”, conte di Rossillon) e che l’apocope del nome di fronte a vocale è tutt’altro che infrequente: un nome singolarmente analogo, anche ritmicamente, è quello di Per Abat (Per sta per Pero), che figura come colui che escribió il poema del Cid Campeador. Il nome NonAmat è probabilmente elaborato su un altro nome ebreo che abbiamo già menzionato, Bonanat (Bennato): al primo posto della lista di conversi sopra menzionata figura proprio un Astruch Bonannasch (come si è visto si tratta di una variante di Bonanat) che certamente non è il nostro trovatore (la lista è molto più tarda), ma che sta ad indicare chiaramente come questo nome fosse presente nella tradizione onomastica ebraica. D’altronde un’allusione alla conversione potrebbe essere il v. 23 (III strofe) della stessa canzone: «pero tal a mon cor convers / q’en leis amar volgra morir senecs». Con la successiva affermazione a rinforzare la veridicità della conversione: «Non sai om tan si’en Dieu frems, / ermita ni monge ni clerc, / com ieu sui seleis de cui chan» (vv. 25-28). Con ciò, naturalmente, non si può dire che l’ipotesi di Roncaglia sia del tutto confermata: occorreranno ulteriori ricerche di verifica nella tradizione onomastica occitanica, ma una cosa ritengo si possa dare per accertata: quale che fosse il significato di quest’operazione, Arnaut Daniel gioca sulla tradizione onomastica ebraica, mettendo in opera quel procedimento dell’interpretatio nominis così frequente nel Medioevo e ben attestato anche presso i trovatori.

D’altro canto, c’è da dire che il gioco su Astruc si inserisce perfettamente nella tradizione trobadorica: Arnaut Daniel nella stessa canzone in cui dice di chiamarsi Astruc NonAmat spiega di aver perso tutti i suoi beni e di essere quindi alla ricerca di un nuovo padrone ricco. La rima in -ucs posta in quella canzone al sesto verso di ogni cobla rinvia all’impareggiabile testo di Raimbaut d’Aurenga in cui «la parola-rima malastrucs si rimartella (identica o variata in malastres) all’interno d’ogni verso, lungo tutto il componimento, con un’ossessività meccanica che produce un effetto d’umorismo ironico» (Roncaglia):

 

Ar non sui jes mals et astrucs,

anz sui ben malastrucs de dreg;

e puois malastres m’a eleg

farai vers malastruc e freg.

Si trop un malastruc adreg

que.l malastruc cap mi pesseg!

 

Non sono affatto malo né fatato

ma sono malfatato diretto

e siccome il malfato m’ha eletto

farò un verso malfatato e freddo.

E se trovo un malfatato stretto

il capo sia fatto a pezzetto.

 

Conformemente alla poetica saturnina di Raimbaut d’Aurenga, il vers è «malastruc e freg»; tutto il componimento mostra la parola malastrucs in rima nel primo verso di ogni cobla e poi in ogni verso successivo la stessa parola o un suo affine (malastre, malastrugamen) si ripete senza una regola specifica, con l’effetto di continua e ossessiva iterazione. In latino astrum poteva significare, oltre che ‘stella, pianeta’, anche ‘sorte, destino’; da qui la neoformazione romanza *astrucus: variante di astrosus, *astrucus aveva un significato corrispondente a ‘votato a un destino crudele’, ma venne ad assumere un significato anche positivo per via della divaricazione dovuta all’assenza delle prefissazioni negative mal- o des-, che invece si vennero ad apporre per accentuare, del medesimo aggettivo, il significato infausto.

Il Donatz proensals, una grammatica occitanica del XIII secolo, traduce malastrucs con ‘infortunium passus’ e desastrucs con ‘infortunatus’. Viceversa con il suffisso ben- il provenzale accentuava l’influsso positivo del Fato e della Fortuna, ma si ricordi che in ebraico il gioco era duplice: Ben preposto al nome, oltre al significato che ha normalmente nelle lingue romanze, aggiungeva quello di ‘figlio di’.

In un sistema di relazioni testuali, basate in primo luogo su opposizioni retoriche, non poteva mancare una risposta al componimento in cui Raimbaut d’Aurenga fa vanto del proprio malfato, risposta che opponesse alla sfortuna amorosa l’essere benastruc del poeta: Eras, pus vey mon benastruc di Guillem Peire de Cazals è legato direttamente sia al testo di Raimbaut d’Aurenga che alla canzone XIV di Arnaut Daniel.

 

Eras, pus vey mon benastruc

temps, que quascus dezira’e vol,

ai cor q’ieu chant d’un’amistat

que’m fai ma domna’, e tant de grat;

per qu’ieu la dupte e la col

e soven n’aspir e n’aluc.

 

Ora, giacché vedo il mio fortunato

tempo, che ciascun desidera e vuole,

ho cuore ch’io canti d’un’amistà

che mi dà madonna, e tanto a grado;

per cui io la temo e la venero

e spesso a lei m’ispiro e di lei m’illumino.

 

Questa bella canzone è inviata ad un Ardit, altro nome di chiara ascendenza ebraica (nella lista sopra citata figura un Isaac Abraham Ardit che con la conversione prende il nome di Pere Ardit). Il componimento di Guillem Peire de Cazals ha la stessa struttura complessiva della «sestina»: 6 coblas di 6 versi più tre versi nel congedo, utilizzo di parole-rima. Si ricordi in proposito l’importanza centrale che ha il 6 nel simbolismo numerologico ebraico.

 

2. Arnaut l’escolier

 

Molta parte della poesia di Arnaut Daniel è giocata sul destino, sulla fortuna al gioco e in amore, sulla mutevolezza delle cose e dei sentimenti, sull’influsso benefico o malefico degli astri.

Il buon esegeta medievale avrebbe capito il carattere ludico, da simpatico debosciato, di questo personaggio, applicando il principio per cui nomen est omen, e constatando quindi che Arnaut, oltre che ‘folle’, significava anche ‘biscazziere’, ‘giocatore’, ‘débauché’. Nel Du Cange, s.v. Arnaldus, troviamo: ‘ganeo’, ‘nebulo’, ‘homo nihili’, ‘scortator’, e ancora ‘coquin’, ‘homme sans aveu’, e più giù lo troviamo nel drappello di «[...] persona ignota, soldato, meretrice, Arnaldo vel ribaldo [...]» da cui occorre, è naturale, guardarsi, come dai «[...] baraterios, Arnoldos, etc.». Arnauder, Arnaldorum more agere, poi, significano ‘molestiam inferre’, ‘vexare’. Dubitativamente ma per soprammercato «Haud scio an inde Hernoux sit appellatus vir, cujus uxor mœchatur, ipso tacente», senza contare arnaldia = ‘morbi species’, «sed incerta, nisi forte alopeia fuerit», e arnaldistae = ‘hæretici’, «ab Arnoldo Brixiano Clerico appellationem nacti».

Noi, meno nominalisti (ma non troppo, perché convinti che, anche se i nomi non sono le cose, se ci s’insiste lo possono diventare), possiamo inferire qualcosa sulla natura — vera o solamente letteraria — di questo «gran maestro d’amore» leggendo il famoso scambio di sirventesi (nel presente volumetto, oltre al I, che è poi, secondo l’ordinamento di Canello, il primo del canone arnaldiano, i componimenti Ia, Ib, Ic), edito nel 1936 da Contini e godibile anche nella bella traduzione di Pietro Tripodo.

La farsa dell’«affaire Cornilh» (così chiamò R. Nelli questo ciclo di testi) è stata efficacemente riassunta dal Canello, e quindi è con le sue parole che piace farla conoscere:

 

Un cavaliere caorsino, Bernardo di Cornilh, corteggiava donna Ina (o Ena o Aja o Maria, come leggono i diversi codici), la quale un giorno fece al cavaliere la proposta ch’egli dovesse cornarla in luogo ch’è bello tacere, ed ella gli concederebbe il suo amore. Bernardo rifiutò; la notizia della proposta e del rifiuto corse all’intorno e fu commentata in modo diverso dai cavalieri e dai trovatori, dal modo elegante, in somma, d’allora. Contro il cavaliere caorsino insorse specialmente Raimondo di Durfort, esso pure cavaliere, e prese a fulminare non solo lui, ma anche i suoi guirens, quelli che stavano dalla sua. Gli dice, che s’è lasciato consigliare (non da cavalieri ma) da serventi, e un servo egli stesso; che la cosa è solo spiegabile, ammettendo che Bernardo temesse di non aver vigore abbastanza a compiere l’opera; egli, Raimondo, si sarebbe condotto in modo ben differente; e non quella sola avrebbe servito, ma duecento, ma centomila. E faceva a Bernardo l’augurio, che potesse trovarsi in tali necessità da coprire una cavalla pregna.

Tra il primo e il secondo sirventese di Raimondo, fu scritto nello stesso metro il sirventese di A. Daniello [ma qui, giusta l'ordine di successione che Contini dette ai primi tre, appunto Ia, Ib e Ic, diventa l'ultimo della serie, cioè il quarto, e, come già ricordato, il I del canone[, che arriva fino alla canzone XVIII, la «sestina»]], il quale si schierò tra i difensori di Bernardo; e contro il difeso e il difensore si sfogò Raimondo nel secondo. «Bernardo (egli dice qui) è un disgraziato ancora più grande di Arnaldo lo scolare che si perde fra i dadi e il tavoliere, e mi ha l’aria d’un penitente, povero com’è di vesti e di denari».

 

Arnaut escolier (‘scolaro’) è quindi tratteggiato come giullare sfortunato di cui si mette in rilievo soprattutto la povertà e la propensione al gioco: dietro questo sembiante di giullare bohémien faremmo davvero fatica a ritrovare il «miglior fabbro del parlar materno», così come la critica ce lo ha dipinto per secoli. Non si può quindi non convenire con Canello, che ammoniva a non prendere i sirventesi «come la schietta espressione della coscienza de’ cavalieri del secolo XII, in rapporto agli amori contro natura», sostenendo egli che queste poesie rappresentavano «lo sfogo di capricci giovanili» ed erano state «composte inter pocula, da gente allegra e chiassona».

In effetti, i personaggi che popolano i testi dell’«affaire Cornilh» non sembrano affatto prodotti dalla realtà: se Arnaut è il pazzo giocatore, tutti gli altri hanno nomi in un certo senso «parlanti» (Raimondo da Duroforte, Bernardo da Corniglio, Trucco Malecca e Donna Inano). Arnaut Daniel, sebbene abbia un nome che fa parentado con il vero, è pur sempre l’unico autore dell’«affaire Cornilh» di cui possiamo con certezza affermare l’esistenza, di cui si abbiano altri testi, che sia, insomma, un trovatore riconosciuto. Degli altri non sappiamo nulla. Le loro prove poetiche possono limitarsi ai soli serventesi dell’«affaire», e i loro nomi esser tutti così legati all’ambito dell’osceno. Al punto in cui siamo, quindi, l’unico autore di cui si possa accertare l’esistenza potrebbe essere insieme l’artefice, l’inventore e l’autore di tutta la storia.

Ad Arnaut Daniel, insomma, non sappiamo a quale altezza della sua vita, ma quasi certamente assai giovane, non dispiaceva essere rappresentato (o rappresentarsi) come un escolier che giocava ai dadi e al tavoliere e aveva sempre bisogno di quattrini per poter giocare. Egli è «scolaro», appunto, e ioglar, chierico e giullare, poeta e giocoliere: la sua biografia ci dice che «amparet ben letras», rinviandoci alla tradizione dei letratz che si fanno giullari e poi muoiono in povertà. Una figura insomma del tutto assimilabile a quella del chierico vagante o del goliardo. Questo è un tratto indelebile della sua poesia ed è su questo che insisteremo.

Gianfranco Contini, del resto, lo aveva intuito:

 

E se l’«Arnaut escolier» di Raimon de Durfort, «que vay coma penedensiers, / paubres de draps e de deniers», fosse incontestabilmente il Daniel, quale soddisfazione ritrovare in lui addirittura un collega di Piero, anzi un chierico vagante di abitudini e di sapienza goliardiche! Questo fremente artefice sarebbe dunque stato un Primate in lingua volgare, un Villon del Millecento?

 

Ipotesi niente affatto in contrasto con quella dell’ascendenza ebraica: è nota infatti l’attenzione degli ebrei alla formazione culturale dei giovani, soprattutto nell’esegesi biblica (L. Paterson ha scritto che «L’insegnamento e il mantenimento delle scuole, inizialmente a livello elementare, era uno dei compiti principali delle comunità ebraiche»), ed è anche nota la propensione di alcuni ebrei al gioco d’azzardo, congiunto all’attività di prestito (M. García-Arenal e B. Leroy, in Moros y judíos en Navarra en la baja Edad Media, riportano un documento che riferisce di come un ebreo di Tudela, Juda Del Rencon, «fues acusado eyll aver jurado muchas vezes de non jugar a los dados, tomando sobre si escomunion si jugasse, e que crebantando las dichas juras, avia jugado ùmuchas vezes» [...], e adducono un altro documento in cui compare tal Jeuda Orabuena – anche qui nomen omen – «jugador» che «vive por los tableros, andando por Aragon e por Castilla»). Del resto Raimon de Durfort sembrerebbe far riferimento (Ic, IV strofe) proprio al nome primigenio del trovatore: «Pus etz malastrucx sobriers / non es Arnautz l’escoliers». Naturalmente, è da escludere che Arnaut Daniel fosse escolier in una delle scuole ebraiche: la sua cultura e le sue affermazioni in poesia mostrano chiaramente che la formazione doveva essere avvenuta in una delle tante scuole cristiane del Midi della Francia: ciò che si vuole mettere in rilievo è che l’eventuale ascendenza ebraica in nulla osterebbe ad una cultura di tipo scolastico.

 

3. Un’arte ludica

 

Per i trovatori la concordanza estetica corrispondeva alla congruenza formale della canso. L’esplicitazione del concetto si trova nettamente in Autet e bas entre·ls prims fuelhs (VIII, In alto e in basso fra le primefoglie), dove la gioia per la stagione primaverile dà impulso al canto perché il poeta è assalito da Amore, che accorda le parole con la melodia: sia la consonanza fra il canto degli uccelli e il canto del trovatore sia la relazione causale fra Amors e l’accordo del chan costituiscono gli elementi di giuntura delle concezioni estetiche cristiane con l’idea dell’armonia mundi.

Accordo con la natura, accordo con la donna amata, accordo fra musica e parole, accordo «cortese»: la canso rappresenta la proiezione sul terreno del microcosmo trobadorico di quella concordia dell’universo di cui parlavano i teologi e i poeti che scrivevano in latino. In questo contesto ideologico, la rima ha una funzione musicale, ed è non solo un abbellimento sovrastrutturale al canto, ma anche parte sostanziale del riverberarsi in esso dell’armonia del cosmo.

Arnaut Daniel fa della forma della canso un elemento fondante della propria ideologia, e non a caso sarà un cultore quasi esclusivo di questo genere. Forte d’una tradizione poetica matura, egli imprime un’accelerazione decisiva sulla strada (probabilmente già aperta da Raimbaut d’Aurenga) dell’imposizione alla struttura della canso di implicazioni significative non evidenti. Con la «sestina» estremizza il discorso, aprendo una nuova strada da esperire in tutte le sue potenzialità: quella dell’elemento ludico nascosto dalle strutture formali (ma anche rivelato, se — come fa Arnaut rispetto ad Amore nella canzone II — se nesegue la traccia).

Ritengo che l’elemento esoterico che alcuni critici hanno voluto vedere nella «sestina» d’Arnaut Daniel consista semmai nel culto per il gioco dei dadi: la struttura permutativa, infatti, risponde alla serie numerica 6-1-5-2-4-3, che coincide con la ripartizione dei punti sulle facce del dado (sotto il 6 c’è l’1, sotto il 5 il 2 e sotto il 4 il 3).

L’allusione al gioco è manifestata e nello stesso tempo occultata attraverso un meccanismo raffinatissimo, assolutamente implicito: quello dei popolari e aristocratici dadi, ch’erano stati osteggiati dal moralista Marcabru e delle cui metafore s’era già servito con istrionesca leggerezza Guglielmo IX, e ai quali aveva poi affidato il compito di esemplificare la sua conoscenza di Amore Raimbaut d’Aurenga (il trovatore che aveva composto, così Roncaglia, «l’antecedente più prossimo della sestina d’Arnaldo», Ar resplan la flor enversa); con la morte di lui, secondo Giraut de Bornelh, era morto quel gioco stesso. Il «miglior fabbro» s’era forse voluto richiamare al glorioso precedente di Raimbaut d’Aurenga, ma forse anche alla propria personale esperienza di giocatore confuso dalla diabolica danza aleatoria.

Roberto Antonelli scriveva nel 1972 che con la «sestina» si ha a che fare con un testo «che di fatto ha costituito per secoli quasi il senhal di un’esperienza intellettuale volta ad autoriconoscersi come tale e ad individuare per suo mezzo un pubblico particolarmente selezionato». L’apertura di questa forma alle più varie interpretazioni ne testimonia l’importanza e il fascino, indipendentemente dall’ideologia sottesa nel momento dell’invenzione.

La storia della ricezione della «sestina» (e forse del trobar) è la storia d’un occultamento e d’una censura. Carducci, ad esempio, sulla scia del Canello, trasformava abilmente questa forma ludica in «un metro mestamente serio» e lo leggeva, forse per mediazione dantesca, come «un cerchio quasi incantato, nel quale gli oggetti fantastici e i reali, e le percezioni e i sentimenti e le visioni si presentano e ripresentano alla mente con successioni di parvenze differenti ma sempre gli stessi» (l’articolo è pubblicato la prima volta sulla Domenica del Fracassa del 17 maggio 1885).

Le altre, infinite, rappresentazioni simboliche sono importanti nella storia della ricezione, e ne fa motivo d’interesse il fatto che ad esse possano essersi applicati poeti come Dante, Petrarca, Schlegel, Queneau, Jorge de Sena e critici come Mari, Roncaglia e Tavera. Non dovremo però mancare d’insistere sul fatto che esse, insieme ad altri elementi, hanno contribuito, oltre all’adozione dantesca e quindi alla creazione petrarchesca della forma fissa, anche all’oscuramento di quella che si può definire la «metafora metrica» della poesia del trobar; sicché il passaggio progressivo dal ludico di Arnaut Daniel al «mestamente serio» di Carducci è emblematico di tutto un modo di intendere (e fare) poesia.

La struttura della canso d’ongl’e d’oncle è parlante; rivela il senso profondo dell’arte trobadorica e dell’ideologia d’Arnaut Daniel: è la rappresentazione di un’arte disimpegnata, è mostra delle casuali geometrie di Amore, e nello stesso tempo la metafora numerica del Caso (pure radicalizzandosi lì il senso del poeta come dominatore sulla materia, fabbro che gioca alla creazione con exordia rerum bisillabici): manifestazione estrema delle possibilità della Forma e dichiarazione esplicita della coincidenza fra l’amore per la donna e l’amore per la retorica.

 

4. Il «trobar a frau»

 

Nella prima cobla della «sestina» il maldicente «pert per mal dir s’arma» (cioè perde, per far lui maldicenza, la sua anima) nel vano tentativo di scalfire il fermo desiderio dell’amante: questi invece riuscirà a ottenere la gioia desiderata utilizzando a proprio favore la frau («sivals a frau, lai on non aurai oncle, / jauzirai joi, en vergier o dins cambra», «con frode almeno ove non avrò zio / gioirò di gioia in verziere od in stanza»).

Nel ricordare che la fraus era una delle componenti centrali dell’ideologia dei vagantes (che cantavano: «in taberna / fraus eterna»), sottolineeremo come la valorizzazione della frode abbia anche un preciso obbiettivo polemico sul terreno trobadorico. Nel componimento di definizione della propria poetica, Lo vers comens quan vei del fau, il trovatore Marcabru oppone al trobar naturau il «trobar a frau / mot de roïll», «trovar con frode / parole di ruggine». Qui Marcabru rivendica la propria superiorità nell’arte e se la prende con i trovatori d’infimo grado, che lo accusano di noiosa pedanteria:

 

E segon trobar naturau

port la peir’e l’esc’e·l fozill,

mas menut trobador bergau

entrebesquill,

mi tornon mon chant en badau

e·n fant gratill.

 

Come richiede schietto poetare,

porto la pietra e l’esca e l’acciarino,

ma ronzanti poetucoli

arruffati

mi volgono il mio canto in baia

e ne fanno beffe. (trad. Roncaglia)

 

Si sa che Marcabru «àncora il proprio canto alla natura, intesa come materia dell’arte» (Roncaglia): il trobar naturau segue l’ordo naturalis, non ha bisogno della pialla o della lima della falsa retorica; poiché illumina e riscalda è paragonato alla tecnica di accensione del fuoco, non all’arte del fabbro o dell’orafo: la peira è la pietra focaia che, colpita dal fozill (il «fucile») di ferro o d’acciaio (l’acciarino appunto), fa sprizzare scintille.

Se è vero che all’inizio del componimento Marcabru contrappone naturaus ‘schietto’ a entrebeschat ‘artificiato, falso’, è vero anche che alla fine del testo ritorna sul motivo per dare un colpo di coda a quei piccoli trovatori entrebesquill, che intrecciano e filano una tela artificialis, e con ciò tornon en badau la sua opera:

 

Marcabru ditz que no·ill en cau

qui quer ben lo vers’a·l foïll,

que no·i pot hom trobar a frau

mot de roïll,

intrar pot hom de lonc jornau

en breu doïll.

 

Marcabruno dice che non gliene importa

se alcuno frughi il «verso» col frucone:

ché non vi si può trovare nascosta

parola rugginosa,

entrare si può con lunga fatica

nel minimo pertugio. (trad. Roncaglia)

 

La ruggine delle parole, quindi, se ne sta solamente nella falsa retorica dei suoi detrattori.

L’esplicito recupero della frau da parte di Arnaut Daniel, mai commentato nella maniera dovuta a un’affermazione tanto «eversiva» rispetto ai cànoni dell’etica sia cristiana che cortese, avrà forse fatto i conti anche con questo passo marcabruniano: per il trobar la frode espressa nella metafora aleatoria è anche, e soprattutto, quella delle parole.

Se per Marcabru è contro natura «il nuovo erotismo galante che si diffonde nel mondo cortese, le teorie che cercano di giustificarlo con speciosi sofismi, i canti che lo celebrano con insinuante suggestione» (Roncaglia), tutto ciò è invece perfettamente conforme all’ideologia cortese di Arnaut Daniel, esponente sia pur implicito del «trobar a frau», della manifestazione assolutizzata dell’arte retorica e delle possibilità che essa offre nella permutazione delle rime e nell’organizzazione ingannevole del linguaggio[ — ciò che poi, leggendo ancora Contini, se si potesse mai rifavoleggiare del «troppo favoleggiato divorzio» Dante-Petrarca quanto al supremo linguaggio poetico della nostra Italia, supremo linguaggio di cui Arnaut Daniel «è comunque un responsabile necessario», porterebbe direttamente al fatto che il trovatore «a appris à Pétrarque à élaborer des paroles pratiquement “vides”, donc toutes prêtes à se remplir d'allusions sémantiques» (Préhistoire de l'aura de Pétrarque)].

Nella «sestina» il potenziale ingannato dall’arte danielina, dalla razo daurada, è lo zio, l’oncle: si tratta, credo, di un riferimento allo zio di Eloisa, Fulberto, grande oppositore della storia d’amore con Abelardo.

Della fraus perpetrata a scapito dell’ignaro avunculus Abelardo parla esplicitamente nell’Historia calamitatum (lettera I):

In huius itaque adolescentulae amorem totus inflammatus, occasionem quesivi qua eam mihi domestica et cotidiana conversatione familiarem efficerem et facilius ad consensum traherem. Quod quidem ut fieret, egi cum praedicto puellae avunculo quibusdam ipsius amicis intervenientibus, quatinus me in domum suam, que scolis nostris proxima erat, sub quocumque procurationis precio susciperet.

 

Tutto già innamorato di questa giovinetta, cercai l’occasione di parlare con lei familiarmente ogni giorno per rendermela amica e attirarla più facilmente al mio amore. Per raggiungere il mio scopo trattai con lo zio della fanciulla del quale ho già fatto cenno, tramite certi suoi amici, perché mi accogliesse come pensionante nella sua casa, che era vicina alla scuola, al prezzo che gli piacesse (trad. N. Cappelletti Truci, come anche per la maggior parte dei passi che seguono).

 

Il verso «sivals a frau, lai on non aurai oncle» sembra quasi una traduzione di «Quadam itaque nocte avunculus ejus absente, sicut nos condixeramus, eam de domo avunculi furtim sustuli…» (qualche pagina oltre, sempre nella prima lettera e dopo che Eloisa s’accorge d’aspettare un figlio). «Allora, in una notte in cui lo zio era assente, dopo esserci prima messi d’accordo, la rapii nascostamente da quella casa».

L’entrata furtiva nella camera di lei (anzi in un angolo del refettorio, nel chiostro dove s’era rifugiata la donna) e l’inganno allo zio, sono richiamati nella lettera V dallo stesso Abelardo:

 

Nosti post nostri confoederatione coniugii, cum Argenteoli cum sanctimonialibus in claustro conversareris, me die quadam privatim ad te visitandam venisse, et quid ibi tecum meae libidinis egerit intemperantia in quadam etiam parte ipsius refectorii, cum quo alias diverteremus, non haberemus. Nosti, inquam, id impudentissime tunc actum esse in tam reverendo loco et Summae Virgini consecrato. Quod, et si alia cessent flagitia, multo graviore dignum sit ultione. Quid pristinas fornicationes et impudentissimas referam pollutiones, quae coniugium praecesserunt? Quid summam denique proditionem meam, qua de te ipsa tuum, cum quo assidue in eius domo convivebam, avunculum tam turpiter seduxi? Quis me ab eo iuste prodi non censeat, quem tam impudenter ante ipse prodideram?

 

Tu sai bene che dopo il nostro matrimonio, quando dimoravi con le monache nel chiostro di Argenteuil, io son venuto un giorno a trovarti furtivamente, e sai quel che ho preteso da te, intemperante com’ero, proprio lì, in un angolo dello stesso refettorio, perché non avevamo altro luogo per il nostro piacere. Sai bene, dico, quanto spudorato sia stato il comportarsi così in un luogo venerabile, consacrato alla Vergine. Anche in assenza di altre colpe, questa sarebbe già degna di una punizione anche più grave. Ti devo forse ricordare i primi peccati carnali e le vergognosissime sozzure che precedettero il nostro matrimonio? E che dire infine del mio enorme tradimento con cui per cagion tua ho ingannato turpemente tuo zio, proprio nella sua casa dove egli mi aveva accolto? Chi può non trovar giusto che egli mi abbia tradito, dal momento che ero stato io per primo a tradirlo vilmente?

 

Sempre nella lettera V è più d’una volta ricordato il Cantico dei Cantici, I,4, con la variante della pre-Vulgata: «Ideo dilexit me rex et introduxit me in cubiculumsuum»; e più oltre: «Bene etiam [...] dilectam et introductam se dicit in cubiculum regis, id est, in secretum vel quietem contemplationis, et lectulum illum de quo eadem alibi dicit: “In lectulo meo per noctes quaesivi quem diligit animamea”» (Cantico III,1); più oltre anche Matteo VI,6: «Hoc autem praedictum sponsae cubiculum illud est ad quod ipse sponsus in Evangelio invitat orantem, dicens: “Tu autem cum oraveris, intra in cubiculum et clauso ostio, ora Patrem tuum”»; più sotto la I lettera ai Corinzi VI,17: «Vos autem quae incubiculum coelestis regis ab ipso introductae atque in eius amplexibus quiescentes, clauso semper ostio, ei totae vacatis, quanto familiarius ei adhaeretis, iuxta illud Apostoli: “Quiadhaeret Domino unus spiritus est”, tanto puriorem et efficaciorem habere confidimus orationem».

Della virga parla Abelardo nella preghiera che Eloisa dovrà recitare per lui: «Puni ad horam, ne punias in aeternum. Accipe in servos virgam correctionis, non gladium furoris. Afflige carnem, ut conserves animam», da confrontare con «de lauzengiers que pert per mal dir s’arma / E pos non l’aus batr’ab ram ni ab verga», «di falso che in maldire perde l’alma; / se non l’oso colpir con ramo o verga» (ancora la «sestina», prima cobla). Saranno allora, di nuovo nella lettera I, da considerare anche il punire (vehementer constringere) e le percosse (verbera) che Fulberto permette, anzi raccomanda che alla nipote vengano date da parte di Abelardo; i termini si duplicano in poco spazio, finché il ritorno delle percosse non rivela la loro vera natura: «Quoque minus suspicionis haberemus, verbera quandoque dabat amor, non furor, gratia, non ira, que omnium unguentorum suavitatem transcenderent».

Così ancora lo stesso Abelardo a Eloisa: «Accipe itaque, soror, accipe, quaeso, patienter quae nobis acciderunt misericorditer. Virga haec est patris, non gladius persecutoris. Percutit pater ut corrigat, ne feriat hostis ut occidat [...]; corpus vulnerat, et animam sanat».

Ed è inutile ricordare che la verga è spesso associata agli scolari fino a questo tardo testamento dell’asino: «Vocem dat cantoribus, / collum potatoribus, / virgam dat scholaribus» («dà la voce ai cantanti, il collo ai bevitori e la verga agli scolari»), ma anche, ad esempio, in questo rondeau di Charles d’Orleans:

 

[E]scollier de Merencolye,

Des verges de soussy batu,

Je suys a l’estude tenu

Es derreniers jours de ma vye.

 

Scolaro di Malinconia,

battuto dalle verghe di preoccupazione,

mi sono attenuto agli studi

fino agli ultimi giorni della mia vita.

 

A tutto ciò si alleghi, a titolo esemplificativo di un settore tuttora inesplorato, questo passo da Apponius, In Canticum canticorum expositio (Cl 194, lib. 3 l. 778), dove troviamo tre delle sei parole-rima presenti nella sestina:

 

Ubi pro ludibrio riduntur incendia, ubi camini in peripata convertuntur, amphiteatra in paradisum, craticulae et sartagines in mollissimam plumam, flammarum globi in gratissimos flores, liquefactum plumbum in balsamorum unguenta, flagellorum virgarumque et ungularum sulcatio in penicillis delicatissimis, quibus anima ab omni peccatorum sorde extersa, ad antiquam pulchritudinem revocata, suo redditur creatori.

 

Ugualmente intra, come imperativo latino, lo ritroviamo in clausola in questo epigramma mediolatino (è nel codice Riccardiano 688 e nel codice di Berna 211):

 

Intus quis? Tu quis? Ego sum. Quis queris? Ut intrem.

Fers aliquid? Non. Esto foris. Fero. Quid? Satis. Intra.

 

L’ultima lettera di Abelardo, la settima, si chiude con un senso [certo] non estraneo all’apertura della «sestina»: «Haec itaque est fides in qua sedeo, ex qua spei contraho firmitatem. In hac locatus salubriter [...]. Si irruat turbo, non quatior. Si venti perflent, non moveor. Fundatus enim sum supra firmam petram».

La ripresa della storia abelardiana non è disgiunta dall’attenzione alla Dialettica e alla Retorica operante presso i trovatori di riferimento per Arnaut Daniel: Abelardo, sommo studioso dell’ambiguità delle parole, dei testi e dei pensieri, era quasi il simbolo della Dialettica, oltre ad essere, secondo un’ipotesi di Gaston Paris che andrebbe rimeditata, il primo dei goliardi («L’essentiel est que les goliards sont, suivant toute vraisemblance, originaires des écoles de Paris, que leur patron, d’ailleur involontaire, est Abailard»). A ciò si aggiunga che la famosissima Metamorphosis Goliae episcopi, scritta da un allievo di Abelardo, (anche) come apologia del maestro Palatino, ha un incipit astrologico, Sole post arietem taurum subintrante, singolarmente simile a quello (unicum nella poesia provenzale) di una canzone attribuita ad Arnaut Daniel, Entre·l taur e·l doble signe.

Ora non potremo non ricordare quella «falsa razo daurada», i sofismi simboleggiati dal dado piombato cui si opponeva Marcabru, e di cui invece Abelardo era considerato il massimo fautore dai suoi detrattori (e in particolare da San Bernardo).

Corrado Bologna ha del resto dimostrato che quella che può essere considerata l’auctoritas principale di Arnaut Daniel, cioè Raimbaut d’Aurenga, aveva fatto precisi riferimenti e allusioni alla vicenda biografica e culturale di Abelardo, in particolare nella poesia Lonc temps ai estat cubertz. Il riferimento all’oncle e alla storia abelardiana, l’allusione alla poetica abelardiana di Raimbaut d’Aurenga, le precise citazioni presenti qua e là nelle poesie di Arnaut Daniel e la definizione della «sestina» con termini che rinviano a questo particolare contesto, sono tutti elementi che interagiscono, a formare un sistema ideologico di grande compattezza.

 

5. La «falsa razo daurada»

 

La vida c’informa che Arnaut Daniel «amparet ben letras e fetz se joglar, e pres una maniera de trobar en caras rimas, per que sa cansons no son leus ad entendre ni ad aprendre» («apprese bene le lettere e divenne giullare, e si mise a comporre nella maniera preziosa: perciò le sue canzoni non sono facili da capire né da imparare»). Egli è un esponente di quella «corrente» poetica denominata (a proposito o meno) del trobar car, cioè dello stile ricercato e prezioso. Come lui, Raimbaut d’Aurenga, che «fo bons trobaires de vers e de chansons; mas mout s’entendeit en far caras rimas e cluzas» («fu buon trovatore di vers e di canzoni, ma molto amava comporre rime preziose e oscure»). Raimbaut d’Aurenga è, come s’è visto, un maestro importante per Arnaut Daniel: il principio dell’utilizzazione di parole-rima (anche se con diversa permutazione interstrofica) della «sestina» è molto probabilmente ripreso dalla magnifica canzone invernale (la già ricordata Arresplan la flors enversa) del conte d’Orange.

L’utilizzo esclusivo dell’arte retorica aveva avuto la sua giustificazione di valore nella famosa tenzone, databile intorno al 1170, in cui Giraut de Bornelh aveva preso partito per il trobar leu e Raimbaut d’Aurenga per il trobar clus. L’argomentazione difensiva di Raimbaut d’Aurenga si fondava sulla differenza qualitativa che sussiste fra i due stili: secondo tale concezione il trobar clus sarebbe da preferire al trobar leu poiché questo rende uniformi tutte le composizioni. Il trobar clus, invece, è più prezioso (plus car) e per tale ragione vale di più.

La fondazione di una maniera preziosa dello stile trobadorico, denominata trobar car o prim o ric, passa attraverso il recupero, operato essenzialmente da Raimbaut d’Aurenga (ma in buona parte anche da Peire d’Alvernhe), del sostanzioso trobarnaturau marcabruniano. Quella forma preziosa del trobar è stata inoltre considerata da buona parte della critica che s’è occupata dell’argomento come la sintesi, realizzatasi fra la metà e la fine del XII secolo, dei due stili leu e clus: del primo avrebbe sussunto la nettezza dei contenuti e del secondo la ricchezza lessicale, retorica, stilistica; ricchezza che avrebbe avuto la sua manifestazione più forte ed evidente soprattutto in sede rimica.

Nella poetica degli autori del trobar car la forma è dichiaratamente l’espressione conveniente della fin’amor: è per tale ragione che il contenuto della poesia deve viceversa essere facile a intendersi.

Il trobar car ha inoltre un’importante connotazione, che circoscrive un aristocratico disegno di assimilazione del preziosismo all’oscurità e al «poco giorno»: lo stile prezioso è scuro come l’inverno, lo stile piano è chiaro come la bella stagione. È Dejosta·ls breus temps e·ls lonc sers di Peire d’Alvernhe, un componimento la cui eccellenza sul piano melodico è dichiarata nella vida del trovatore, a segnare l’inizio del nuovo modo di comporre e a imprimergli un marchio che giungerà fino alle rime petrose di Dante. Arnaut Daniel non si è ovviamente sottratto a questa tendenza; in più ha desunto, come al solito, motivi precisi dai testi latini letti a scuola. Si leggano le prime due strofe della canzone III:

 

Quan chai la fuelha

dels aussors entressims

e·l freg s’erguelha

don seca·l vais e·l vims,

dels dous refrims

vei sordezir la bruelha:

mas ieu sui prims

d’Amor, qui que s’en tuelha.

 

Tot quant es gela,

mas ieu no puesc frezir

qu’amors novela

mi fa·l cor reverdir;

non dei fremir

qu’Amors mi cuebr’e·m cela

e·m fai tenir

ma valor e·m capdela.

 

In un ms. proveniente da S. Marziale di Limoges (Paris, B. N. lat. 3719, fol. 42) troviamo un conductus profano straordinariamente simile (incipit identico, clausole con medesime vocali nella prima strofe, perfetta identità fra l’inizio della seconda cobla della canzone provenzale e la quarta strofe del testo latino qui riprodotta):

 

De ramis cadunt folia,

nam viror totus periit;

iam calor liquit omnia

et habiit,

nam signa celi ultima

sol peciit.

… [...]

Modo frigescit quiquid est,

sed solus ego caleo,

immo sic michi cordi est

quod ardeo;

hic ignis tamen virgo est

qua langueo.

 

Cadono le foglie dai rami, tutto il verde muore; già il calore ha abbandonato ogni cosa ed è fuggito: infatti il sole avanza verso le ultime costellazioni del cielo… [?//] Ora tutto quanto gela, ma solo io resto caldo, anzi di più, il mio cuore mi fa ardere; e questo fuoco è la donzella per la quale languisco.

 

Al testo sammarzialese allegherei, per mostrare la compattezza della tradizione letteraria cui Arnaut fa riferimento, questo famoso carmen buranum:

 

Sevit aure spiritus,

et arborum

come fluunt penitus

vi frigorum;

silent cantus nemorum.

Nunc torpescit vere solo

fervens amor pecorum;

semper amans sequi nolo

novas vices temporum

bestiali more.

 

Il vento gelido inasprisce e le chiome degli alberi volano via per il freddo; tacciono i canti dei boschi. Ora intorpidisce l’amore degli animali, fervente in primavera; ma io, sempre innamorato, non voglio seguire il mutare delle stagioni come fanno le bestie.

 

Agli esempi tratti dalle poesie latine, molti se ne potrebbero aggiungere presi direttamente dalla poesia provenzale: in effetti c’è un’ideologia saturnina, di rivalutazione del freddo e dell’oscuro, dietro il trobar car, che potrebbe essersi riverberata, con la mediazione di Raimbaut d’Aurenga, anche nell’opera di Arnaut Daniel. Proprio Raimbaut d’altro canto, in un componimento le cui coblas cominciano tutte con Car, traccia una precisa corrispondenza fra il preziosismo, l’oscurità lessicale e le capacità dell’artista di limare la ruggine delle parole. Cars, douz e feinz del bederesc costituisce con evidenza una tappa importante nel rapporto di relazioni fra Marcabru, Raimbaut d’Aurenga e Arnaut Daniel, così come nell’impresa che porta alla completa valorizzazione della maniera preziosa: s’è già parlato di Cars, douz e feinz come di una possibile fonte della verga presente in Lo ferm voler (XVIII, la «sestina»). Anche per tale ragione le dichiarazioni di poetica in essa contenute andranno valutate attentamente;eccone la II strofe:

 

Cars, brun e tenz motz entrebesc:

pensius, pensanz, enquier e serc -

com si liman pogues roire

l’estrain roïll ni·l fer tiure -

don mon escur cor esclaire.

Tot cant Jois genseis esclaira

Malvestatz roïll’e tiura,

e enclau Joven en serca

per q’Ira Joi entrebesca.

 

Preziose brune e tinte parole allaccio

pensoso, pensante, vado cercando

come, limando, possa corrodere

la ruggine estranea e il calcare del ferro

e con ciò schiarire il mio cuore oscuro.

Tutto ciò che la Gioia meglio rischiara

Malevolenza arruginisce e calcifica

e rinchiude Gioventù e la circonda;

allora Ira s’intrica con Gioia.

 

Il nesso fra l’oscurità del cuore del poeta e lo stile della poesia è patente, come anche la funzione centrale del fabbro che lima il ferro così come Jois rischiara il cuore arrugginito da Malvestatz. Il legame fra l’intimo del poeta e l’esplicitazione del sentimento nella poesia è cioè chiaramente messo in relazione con la capacità artigiana.

L’allusione a Marcabru si manifesta, a mio avviso, già nel primo verso di questa cobla, con quel Cars, bruns, che non poteva non richiamare il «nome di Marcabru». Ma la parodia del trovatore d’Orange va ben oltre: s’è visto che la polemica marcabruniana era diretta contro i «menut trobador bergau / entrebesquill», cui evidentemente Raimbaut d’Aurenga assimila se stesso quando afferma di «entrebescar motz», mentre Marcabru affermava orgogliosamente la propria superiorità, ribadendo l’impossibilità di trovare «mot de roïll» nei propri vers.

Raimbaut afferma che, suo malgrado, la ruggine non è solo nelle parole, ma incrosta anche il suo cuore: solo con il lavoro di lima essa può essere rimossa, sia dal vers che dal cuore. È quindi il lavoro artigianale, il labor limae, l’utilizzo dell’arte retorica, che può rischiarare la poesia e depurare il sentimento inquinato da una connaturata Malvestatz.

La polemica e la dichiarazione di poetica, quindi, non potrebbero essere più chiare: al moralista che si era opposto alla «falsa razo daurada» che sempre più prendeva il passo a quei tempi, Raimbaut d’Aurenga rispondeva che la chiarezza, la limpidezza dei concetti e delle parole (sottratte all’inverno originario, che pur sempre impronta di sé la poesia rambaldiana) proviene dal lavoro fabbrile. Raimbaut d’Aurega si inseriva così fra gli esponenti del «trobar a frau»: coloro che trovano con l’inganno [<?] i difetti del comporre marcabruniano e che dell’arte retorica rappresa nel proprio comporre fanno perno.

Gli stessi concetti, sia pur mediati e posti al servizio di un trobar solo apparentemente più leu, sono presenti in un altro testo di Raimbaut d’Aurenga, molto importante per definire le radici dello stile poetico di Arnaut Daniel, En aital rimeta prima; in esso s’individua sia il motivo della ruggine che quello della lima, unitamente a una serie di rinvii al fare artigiano e muratorio, e a più motivi d’ispirazione che saranno tipici dello stile d’Arnaut Daniel [(miei i corsivi nell'originale)]:

 

En aital rimeta prima

M’agradon lieu mot e prim

Bastit ses regl’e ses linha,

Pos mos volers s’i apila;

E atozat ai mon linh

Lai on ai cor qe m’apil

Per totz temps, e qi·n grondilha

No tem’auzir mon grondilh

 

De la falsa genz de lima

E dech’e ditz (don quec lim)

Ez estreinh e mostr’e guinha

(So don Joi frainh e esfila),

Per q’ieu sec e pols e guinh:

Mas ieu no·m part del dreg fil,

Car mos talenz no·s roïlha,

Q’en Joi nos ferm ses roïlh

 

In questa canzoncina fine

mi piacciono lievi parole e fine,

costruite senza regolo o linea,

giacché il mio desiderio vi si radica;

e attosato ho il mio legno,

là dove ho desiderio d’appoggiarmi

per sempre, e chi ne strilla

non tema udire i miei strilli.

 

Di falsa gente che lima,

dichiara e sparla (onde tutti io limo)

e costringe e mostra e addita

(per questo Gioia è distrutta e rovinata)

per cui mi secco e ansimo e ghigno,

ma non mi allontano dal filo diritto,

perché il mio desiderio non arrugginisce

che ci blocca in Gioia senza ruggine.

 

In questa canzone è sicuramente da vedere il nucleo generatore di Canso do·ill mot son plan e prim, un testo di Arnaut Daniel (canzone II) con una tradizione manoscritta pari a quella della «sestina» e ad essa [≠] associato [≠] in più manoscritti. Il legame di Canso do·ill mot son plan e prim con En aital rimeta prima è denunciato dall’incipit, forgiato sul secondo verso, «M’agradon lieu mot e prim», ed è ribadito con la ripresa sistematica delle parole con rima in -im presenti nelle prime tre strofe della rimeta. La dichiarazione di Arnaut Daniel di voler comporre «con arte d’Amore» è accompagnata dunque da un esplicito rinvio alla rimeta di Raimbaut d’Aurenga. Si legga il passo arnaldiano:

 

Pels bruelhs aug lo chan e·l refrim,

e per qu’om no m’en fassa crim

obri e lim

motz de valor

ab art d’Amor

 

Pei boschetti odo il canto e il cinguettio

e perché non mi si faccia accusa

lavoro e limo

parole di valore

con l’arte di Amore

 

Anche la dittologia «ard’e rim», che troviamo in un altro luogo della canzone arnaldiana («dreitz es lacrim / e ard’e rim / sel que d’amor janguelha», «giusto è che frigni, / bruci e si strini / lui che l’amore imbroglia»), richiama, oltre che un passo dello stesso autore, anche l’inizio della strofe della rimeta di Raimbaut d’Aurenga («Si que·l cor m’art, mas no·m rima / Ren de foras, mas dinz rim»). L’ardere del cuore, rappresentato mettendo in rima la parola rima non poteva sfuggire al fabbro che lima parole con arte d’Amore.

La maestria artigianalee il gioco sono due elementi che, tenuti a battesimo da Guglielmo IX, ritornano spesso a caratterizzare il trobar: in Ab gai so cuindet e leri (X del canone) i due elementi del mester (‘mestiere’) e del joc (‘gioco’) sono ancora una volta associati alla poetica o alle virtù sentimentali del trovatore. L’intero componimento è intessuto di metafore volte a esprimere il legame fondamentale fra amore e arte.

Se nella Canso do·ill mot son plan e prim Arnaut Daniel afferma di essere un fabbro della poesia per mezzo dell’«arte d’Amore», che dà «valore» alle parole, qui nella X la metafora viene dilatata a tutto il componimento. Il riferimento alla rimeta rambaldiana è chiaro sia nel tono generale dell’incipit («Ab guai so cuindet e leri / fas motz e capus e doli», «Con gaio suono lieto e lieve / faccio e squadro e piallo parole» vs «En aital rimeta prima / m’agradon lieu mot e prim / Bastit ses regl’e ses linha») sia nell’andamento metrico eptasillabico sia nei continui riferimenti all’operare dell’artigiano. In Ab guai so la verità delle parole è direttamente legata al labor limae del poeta, la coscienza della veridicità è in rapporto con la retorica: la posizione di Arnaut è quindi opposta a quella di Marcabru, critico della «falsa razo daurada».

Per Arnaut Daniel è Amore che indora le parole, è Amore che porta il poeta all’utilizzo di quegli artifici criticati dal grande moralista. L’Amore che canta Arnaut Daniel è in grado di apportare un miglioramento, un dirozzamento nell’animo come nelle parole: è Amore la causa del perfezionamento sentimentale e retorico del poeta. In Ab guai so ritorna particolarmente insistente il motivo del disinteresse del poeta nei confronti dei beni materiali e degli onori mondani ed è accennato il tema della perdita per «troppo volere» (vv. 23-24), che non sarà senza relazione con la rovinosa predilezione di Arnaut per il gioco d’azzardo. Il maltraire del poeta è comparato a quello del lavoratore (v. 40). Termini come capus («squadro»), doli («piallo»), escrima (‘difesa’, ‘scherma’, «ancile» nella presente traduzione), s’aisaura (‘svanisce’, ‘svapora’, qui «va per aria»), renueu (‘usura’), laura (‘lavora la terra’, ‘lavora penosamente’, qui «ara»), bueu (‘bue’), o locuzioni come «qu’anc non amet plus d’un hueu» (v. 41, «ché non amò più d’un uovo»), contribuiscono a dare al componimento un duplice registro stilistico, giocato nello stesso tempo sulla ricercatezza e sul livello basso del linguaggio: il lavoro, l’usura, la caccia sono motivi che fanno da contrappunto al dichiarato disprezzo dei beni terreni a favore dell’amore per la donna. Gli ultimi due versi della quarta strofe vanno, a mio avviso, letti così: «tant ai de vers fag renou / q’obrador n’ai e taverna», «tanto ho fatto usura dei miei versi che ne ho officina e taverna»: l’officina e la taverna di Arnaut Daniel sono quelle che egli ha ottenuto mettendo a profitto il proprio poetare e i propri sentimenti veritieri (vers può infatti far riferimento, oltre che alla poesia, alle verità sentimentali). Si ricorderà a proposito di questa interpretazione che una delle professioni più diffuse fra gli ebrei era proprio quella del prestito a interesse (qui renou): Arnaut Daniel, trovatore di ascendenza ebraica, rivendica per sé quest’attività, ma ribadisce che non sarà il denaro ad essere messo a profitto, bensì la stessa poesia. Il canto di Arnaut Daniel usura e si usura, ma nello stesso tempo è capace di rinnovarsi (anche a ciò allude la parola renou) proprio attraverso le metafore artigianali e ludiche.

In questo quadro ritengo sia possibile fornire anche un’ulteriore spiegazione del famoso verso 43: «Ieu sui Arnaut qu’amas l’aura», «Io sono Arnaut che ammassa l’aura». Al mondano ammassare «thezaur» o «l’aur» Arnaut Daniel oppone il suo «ammassar l’aura»; il gioco è evidente; anche qui viene rivendicata la rinuncia alle ricchezze terrene: non l’aur ma l’aura, non l’oro ma l’aria. D’altronde il secondo verso del congedo, «e cas la lebre ab lo bueu», se fa riferimento a un topos antico e radicato nella tradizione (Spaggiari), potrebbe anche contenere un’allusione al gioco della «caccia alla lepre» di probabile origine ebraica (il tavoliere rappresentato nella bella miniatura del Libro de los juegos di Alfonso X è contornato di stelle davidiche).

Una poetica del disprezzo delle cose terrene, materiata di riferimenti realistici. Il lavoro del poeta allontana dai beni materiali; l’Amore per la Donna, anche se è più duro del lavoro dei campi, è in grado di procurare all’amante un raffinamento interiore che si esplica nel chantar. Il lavoro e il profitto sono quindi intimamente legati alla poetica di Amore: non profitto terreno, ma superiore gloria costituita dalla bontà del canto.

Amore «marves plan’e daura» (X 5, «ratto Amore polisce e inaura») il chantar di Arnaut Daniel. In proposito mi sembra particolarmente interessante la serie di riferimenti alla doratura presente in altri trovatori. Marcabru è contro la «falsa razo daurada», perché essa si serve dei dadi piombati, dell’inganno:

 

Ah com es encabalada

la falsa razos daurada:

«Denan totas vai triada»!.

Va! ben es fols qui s’i fia;

de sos datz

c’a plombatz

vos gardatz,

qu’enganatz

n’a assatz

e mes en la via.

 

Ahi! che forte potentato

il falso argomento dorato:

«ed ognuno è spigolato!».

Ben è folle chi si fida;

dei suoi dadi

c’ha piombati

vi guardate,

ché ingannati

ne ha assai

e messi per via

 

Arnaut Daniel e Peire Vidal sono invece fautori della doratura delle parole. Peire Vidal dice in proposito nella canzone Tant me platz:

 

E sapchatz, s’ieu fos amatz,

que n’auziratz esmeratz

chantaretz prezatz,

qu’era que sui malmenatz,

fas meravilhatz

motz ab us sonetz dauratz,

e no m’en val amistatz

ni no chan mas de percatz.

 

E sappiate, se fossi stato amato

avreste udito smerigliate

canzoncine pregiate,

ma ora che sono melmenato

faccio meravigliate

parole con musichette dorate

e non mi vale più nulla amore

né più canto di profitto.

 

E poi nella tornada di Ges quar estius:

 

Senher N’Agout, no·us sai lauzar

mas de vos dauri mon chantar

 

Signor Agout non vi so lodare

se non dorando il mio cantare.

 

Come in Arnaut Daniel, quindi, la doratura caratterizza il trobar in accezione positiva. Arnaut Daniel e Peire Vidal sono trovatori che esaltano la «falsa razo daurada»: per loro l’imbroglio della falsa retorica è nascosto proprio nella retorica, che sfolgora di se stessa.

L’«officina» e la «taverna» sono i luoghi del poetare di Arnaut Daniel, fabbro e giocatore. Ma se le funzioni dei due simboli sembrano differenti, la materia è una: la poesia. Non è forse un caso se nel Polytecon sono messe sullo stesso piano la prova della fortuna, quella del flagello (la verga arnaldiana?) e quella del fuoco: la forza del virtuoso si avverte nell’avversa fortuna, il nitore dell’oro vero nel fuoco dell’artigiano:

 

Quod fornax auro, quod ferro lima, flagellum

messibus, est iustis asperitas onus.

Qui modo torquetur, nescit quam magna lucretur.

Alea fortune fortes examinat: aurum

in fornace, fides anxietate nitet.

 

Come la fornace all’oro, come la lima al ferro o il flagello

alle messi, così per i giusti le asperità sono un peso.

Chi da esse viene travolto, non sa quali grandi cose guadagna.

L’alea della fortuna mette alla prova i forti: l’oro

brilla nella fornace, la fede nell’angustia.

 

L’obrador e la taverna. Il primo è il luogo del «fare» artigiano, il secondo il luogo del tempo libero, del gioco. I due luoghi si oppongono: l’uno è il luogo del lavoro, l’altro il ricettacolo dei nullafacenti. Il poetare d’Arnaut Daniel è faber et ludens nello stesso tempo: il vers, il genere onnicomprensivo del primo trobadorismo, è il luogo in cui queste due qualità si manifestano, e l’officina e la taverna saranno quindi i due luoghi che metaforicamente rendono questa dualità del poetare.

Se vogliamo comprendere le ragioni del ludico, cioè le regole del gioco, non dobbiamo dimenticare che l’esigenza di dare ordine con un complesso di dettami e di “leggi” al sapere, ai sentimenti e quindi alla poesia era centrale nell’ideologia del periodo: si pensi per esempio alle regulae amoris nel De Amore di Andrea Cappellano. La regola è il gioco e il gioco è la regola: in ciò ritroviamo l’elemento di mediazione fra legge-società da un lato e [regola] cortese dall’altro.

In questa direzione sono da tener presenti le considerazioni di Jauss, secondo il quale per l’esperienza letteraria del Medio Evo «non è fondamentale il carattere di opera che il singolo testo possiede, ma l’intertestualità, nel senso che il lettore deve negare il carattere di opera del singolo testo per attingere fino in fondo il fascino di un gioco iniziato già prima, dalle regole conosciute e dalle sorprese ancora sconosciute».

Occorre rifarsi poi alla definizione di gioco data da Benveniste: «toute activité reglée qui a sa fin en elle-même e ne vise pas à une modification utile du réel». Benveniste mette anche in rilievo «le caractère formel et réglé du jeu, qui doit se dérouler dans des limites et conditions rigoureuses et constitue une totalité fermée». Il gioco sfugge ai limiti del reale poiché è in primo luogo «forma». Nello stesso tempo

 

Le jeu réalise par l’intermédiaire des participants une sorte de drame complet, de forme genéralement agonistique, consistant en une lutte pour la possession d’un objet, instrumen ou symbole de victoire. Il se joue dans un groupement fermé [...] dont il est la raison d’être et qui est entièrement voué à son accomplissement. Entre les membre de ce groupement, le lien du jeu peut être plus fort qu’une parenté de sang; il crée le sentiment très vif d’une communauté qui tire de lui sa mission, son honneur, ses symboles; les joueurs ont une personnalité du jeu, souvent un déguisement. Tout cela aide à definir le type de réalité où se meut le jeu: c’est une réalité mystique et qui emprunte au sacré quelques-uns de ses caractères le plus apparents.

 

Per Benveniste la passione del gioco ha qualcosa di mistico («la passion du jouer, qui le soustrai au monde réel, ressemble souvent à l’extase du fidèle quand il est au contact du sacré; c’est la même exaltation, la même pathetique, une frénesie…») Il gioco, quindi, si oppone al sacro, ma è a questo intimamente legato. Esso riporta il divino a livello umano e lo rende accessibile («Le jeu n’est donc au fond qu’une opération désacralisante»). Nello stesso tempo la poesia è assimilabile al gioco in quanto «agencement des formes arbitraires étroitement réglées». Per rendere il mondo «satisfaisant et intelligible» è sufficiente divenire ciò che il gioco esige si divenga, accettarne, insomma, le regole: il gioco, quindi, è in primo luogo comprensione coatta del mondo, e nello stesso tempo riduzione del mondo e del cosmo all’umano.

In un’aetas ovidiana il recupero dell’aspetto ludico non dovrà meravigliare. È stato notato che

 

Ovidio servendosi degli strumenti offertigli dalla sua educazione retorica e delineando situazioni più “comuni” e più “ripetibili” attenua l’autobiografismo e quindi la serietà e l’impegno morale, propri della poesia augustea dell’età precedente alla sua [...]; tale circostanza gli permette di distaccarsi dalla realtà politica e sociale che lo circonda e di avere una sua visione della vita, umana e mondana, aperta a tutte le esperienze e non astretta a fini tradizionali; siffatta visione, infine, trova il suo supporto nella poesia intesa come gioco, e quindi come trastullo capriccioso dell’animo (Scivoletto).

 

Ciò è, del resto, in linea con le lucide considerazioni di Dragonetti:

 

Non sarebbe giusto separare in modo troppo deciso il tono allegro di certe opere medievali da altre opere della stessa epoca, di uno stile più grave e più degno. Certo, non si tratta di cancellare le differenze, ma di sottolineare che il gioco è una delle dimensioni fondamentali della letteratura cortese. Essa è animata dall’XI secolo fino almeno al XIII dallo spirito di giullaria, di jonglerie, che fa della lingua poetica lo strumento magico di tutti gli specchi che riflettono la sua stessa favola. Lo sviluppo della lingua volgare, la cui pienezza si compie nell’elemento del ritmo e della musica, si accompagna così ad una sorta di ilarità dove il riso passa dallo scherzo alla buffoneria, alla risata beffarda o canzonatoria, senza che la lingua perda mai i suoi diritti alla sovranità del gioco e della gioia che procura.

 

Le istanze ludiche, sussunte dai registri goliardici latini, si integrano nel trobar in perfetta sintesi con gli altri elementi costitutivi, la Fin’Amors, la Dama, la Forma, divenendone elemento caratterizzante, un marchio, come la maestria artigianale del comporre. Quelle istanze comprendono più aspetti del poetare: riguardano il settore meno impegnato e più femminile del trovatorismo, impregnano le poesie burlesche e oscene, si incuneano a frau fra le vesti ricamate delle forme metriche e rimiche.