Chiaro Davanzati: Rime, a cura di Aldo Menichetti

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Troppo ag<g>io fatto lungia dimoranza,
lasso, ch'ïo non vidi
la dolze speme a cu' i' m'era dato:
sonne smaruto e vivone in pesanza,
ohimè, ché non m'avidi                                                                                  5
del folle senno mio, che m'ha 'nganato
ed allungiato – da lo suo comando:
però è dritto ch'ogni gioia m'infragna,
poi ch'io m'alungo da la sua compagna;
e come più me ne vo alungiando,                                                                 10
men'ho di gioia e più doglio affannando.
 
Se mia follïa m'inganna e m'aucide
e dà pena e tormenti,
ben è ragion che nullo omo mi pianga,
ch'io sono ben come quei che si vide                                                           15
ne l'agua infino a' denti,
e mor di sete temendo no afranga:
ma no rimanga – io ne lo scoglio afranto.
Così ag<g>‘io per somigliante eranza
smisurata la sua dolze speranza:                                                                   20
e so, s'io perdo lei cui amo tanto,
perdut'ho me a gioia e riso e canto.
 
Tant'aio minespreso feramente,
ch'io˙n mi sao consigliare:
gran ragion'è ch'io perisca a tal sorte,                                                          25
ch'io faccio come 'l cecer certamente,
che si sforza a cantare
quando si sente aprossimar la morte.
E più m'è forte
la pena ov'io son dato,                                                                                30
quand'io non veg<g>io quella dolze spera,
che ne lo scuro mi donò lumera:
ohmè, s'io fosse un anno morto stato,
sì doverei a˙llei es<s>er tornato.
 
Sì come non si puo<t> rilevare,                                                                   35
da poi che cade giuso,
lo lëofante, ch'è di gran possanza,
mentre che gli altri co lo lor gridare
vegnon, che˙levan suso
e rendorli il conforto e la baldanza;                                                              40
a tal sembianza,
canzon, vatene in corso
ad ogne fino amante ovunque sede,
che deg<g>iano per me gridar merzede;
ché se per lor non m'è fatto socorso,                                                           45
fra i ternafin' del disperar son corso.