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INTRODUZIONE

Su Arnaut Daniel il giudizio della critica non è certo unanime, quasi che l’oscillazione di Dante fra la medaglia di bronzo offerta en passant al «cantor amoris» nel De vulgari eloquentia (II ii 9) e quella d’oro attribuita al «miglior fabbro del parlar materno» nel Purgatorio (XXVI, 115 e ss.) si sia proiettata su tutta l’esegesi a venire.

Benché Canello avesse trovato Arnaut Daniel capace di «far vibrare la corda del sentimento», i giudizi espressi dall’inizio di questo secolo sono stati quasi unanimemente negativi. Chi vedeva in Arnaut Daniel un freddo adepto del tecnicismo artificiale e oscuro (Anglade), chi ne biasimava lo stile affettato (Ferrers Howell), chi, sia pur da posizioni ben più autorevolmente critiche verso l’arte trobadorica, ne riduceva la poetica a quella di un ciseleur dai pensieri banali (Jeanroy).

Molti dei critici hanno quindi ritenuto che il giudizio purgatoriale di Dante fosse dovuto esclusivamente alla maestria tecnica del trovatore, senza peraltro comprendere che per Dante, nel momento in cui esprimeva il giudizio, il fatto tecnico era d’importanza vitale nella definizione anche della propria poetica (Chaytor, Hauvette, Toja).

Solo qualcuno, fuori dal coro, affermava che forse l’oscurità e la supposta artificialità dei testi poteva anche essere dovuta a un’interpretazione nel complesso fallace (Lavaud). Le antologie e le storie letterarie più recenti hanno invece notevolmente rivisto il giudizio. Soprattutto da parte dei critici e degli editori italiani, Arnaut Daniel è stato rivalutato per il suo «parlare strano ed avvolto, intessuto di contrasti bruschi ed aspri, con chiaroscuri crudi e linee nude e recise e taglienti» (Viscardi), per l’unità tra forma e ispirazione poetica (Battaglia), per essere il massimo rappresentante di quella poesia in cui «la forma specifica dell’opera d’arte, prima ancora che il suo contenuto, diviene essa stessa ideologia» (Antonelli). Un’ideologia sempreverde, c’è da aggiungere, se è vero che la forma metrica da lui «inventata», quella della «sestina» (qui al n. XVIII), continua ad essere utilizzata da poeti sperimentalisti e da letterati in genere con passioni matematiche. E una fortuna oscillante ma soprattutto italiana: dopo Dante, Petrarca, e poi i molti autori del cinquecento che lo hanno studiato in quanto auctoritas dell’una e dell’altra corona (ma soprattutto della seconda), per arrivare nell’800 alle impareggiabili pagine di Ugo Angelo Canello, giunto dall’«illustrazione» dei Sepolcri del Foscolo (la «lirica forse più bella certo più oscura del Parnaso italiano») all’«illustrazione di questo difficilissimo tra i lirici tutti del Parnaso neolatino» per via della «particolare attrattiva» esercitata su di lui dalle «cose difficili o anzi difficilissime». E su questa strada impervia ritroviamo poi Contini e la sua scuola, i due editori recenti, Perugi ed Eusebi, i cui lavori (entrambi fondativi) si contrappongono per metodo e per quantità, facendo palese quanta sagacia è ancora necessaria per rimuovere tutti gli ostacoli messi da Arnaut e dai suoi copisti sulla strada che Canello aveva cominciato a spianare.

Questo proteiforme Arnaldo Daniello entrato a pieno titolo nelle lettere italiane è stato letto e riletto nelle edizioni sopra menzionate dai nostri autori e dai nostri critici, è stato terreno inesauribile di esercizi filologici e di tentativi di lettura: ciò che ne è venuto fuori è stato soprattutto un discorso sullo stile, e ne era proprio questo il fine, giusta l’origine prima dantesca e poi petrarchesca della nostra tradizione esegetica. Ma tutto sommato, credo che l’Arnaut Daniel trovatore e intellettuale sia ancora tutto da scoprire. L’ipotesi che cercheremo di sostenere in queste pagine è che la sua fosse un’ideologia ludica e allusiva, nata da un probabile sostrato ebraico, sostanziata della cultura scolastica del tempo e quindi non dissimile da quella dei clerici vagantes e dei goliardi. Ma vedremo che si tratta anche di una cultura radicatissima nelle istanze primarie del trobar, con precisi punti di riferimento fra i più sperimentalisti dei suoi compagni di canto.

 

1. Astrucs Non’Amatz

 

Aurelio Roncaglia, dopo aver proposto di rappresentare graficamente l’elaboratissima testura rimica della «sestina» con una stella davidica, si domandava se questo «Arnaldus [...] cognomine Danielis» (così Benvenuto da Imola nel commento al XXVI canto del Purgatorio dantesco) «non fosse egli stesso d’ascendenza ebraica». Mi sembra che l’ipotesi trovi un importante appoggio nel fatto che Arnaut dica di chiamarsi Astrucs (nella canzone XIV, Amoree gioia e luogo e tempo, I strofe): «Car ben am, d’aizo·m clam Astrucs».

Ora, è noto che gli ebrei provenzali e catalani «sintieron predilección por adoptar en su onomástica palabras con cierto sentido poético: Astruc = feliz, afortunado; Maïr o Mayr = perfecto; Bellshom o Bellhom = hombre bello; Benet o Bendit o Beneït = bien dicho o Benedicto; Goig o Joies = alegría; Dolça;? Bonafós, que posiblemente equivale a Astruc; Bonfill, Bonafilla = hijo o hija buena; Bonadona = buena mujer; Bonanasch o Bonanat = bien nacido; Bonjudá o Bonjuá = buen judío; Bonisach = Buen Isaac; Bonsenyor;? Bonavía = buen camino, y también buena conducta, etc.» (da L. Marco i Dachs, Los judíos en Catalunha). La dichiarazione è di sommo interesse nel momento in cui la si riconnette con il secondo nome che il trovatore si attribuisce, Non Amatz: «ma NonAmatz ai nom anquers». Il nome completo che il trovatore viene a dare a se stesso quasi come auto-senhal è dunque Astrucs Non Amatz, ‘Fortunato Nonamato’, dove evidentemente la Fortuna si oppone all’Amore. Notiamo che Amat era un nome piuttosto frequente fra gli ebrei convertiti (e che, invece, non figura fra i nomi d’origine): ad esempio da una lista di ebrei catalani convertiti al cristianesimo si ricava che Magaluff Faquim prende il nome di Joan Amat, Barrahon Marilí diviene Rafel Amat, Maimó Mhabub si fa battezzare Pere Amat (la lista è nel libro di Marco i Dachs sopra citato). Non Amat potrebbe facilmente figurare in questa lista, se si pensa che il frequentissimo nome Nuno (attualmente in castigliano Nuño) in occitanico diventava Nono (ricordo il noto planh, scritto dal trovatore Aimeric de Belenoi per “Nono Sanchiz”, conte di Rossillon) e che l’apocope del nome di fronte a vocale è tutt’altro che infrequente: un nome singolarmente analogo, anche ritmicamente, è quello di Per Abat (Per sta per Pero), che figura come colui che escribió il poema del Cid Campeador. Il nome NonAmat è probabilmente elaborato su un altro nome ebreo che abbiamo già menzionato, Bonanat (Bennato): al primo posto della lista di conversi sopra menzionata figura proprio un Astruch Bonannasch (come si è visto si tratta di una variante di Bonanat) che certamente non è il nostro trovatore (la lista è molto più tarda), ma che sta ad indicare chiaramente come questo nome fosse presente nella tradizione onomastica ebraica. D’altronde un’allusione alla conversione potrebbe essere il v. 23 (III strofe) della stessa canzone: «pero tal a mon cor convers / q’en leis amar volgra morir senecs». Con la successiva affermazione a rinforzare la veridicità della conversione: «Non sai om tan si’en Dieu frems, / ermita ni monge ni clerc, / com ieu sui seleis de cui chan» (vv. 25-28). Con ciò, naturalmente, non si può dire che l’ipotesi di Roncaglia sia del tutto confermata: occorreranno ulteriori ricerche di verifica nella tradizione onomastica occitanica, ma una cosa ritengo si possa dare per accertata: quale che fosse il significato di quest’operazione, Arnaut Daniel gioca sulla tradizione onomastica ebraica, mettendo in opera quel procedimento dell’interpretatio nominis così frequente nel Medioevo e ben attestato anche presso i trovatori.

D’altro canto, c’è da dire che il gioco su Astruc si inserisce perfettamente nella tradizione trobadorica: Arnaut Daniel nella stessa canzone in cui dice di chiamarsi Astruc NonAmat spiega di aver perso tutti i suoi beni e di essere quindi alla ricerca di un nuovo padrone ricco. La rima in -ucs posta in quella canzone al sesto verso di ogni cobla rinvia all’impareggiabile testo di Raimbaut d’Aurenga in cui «la parola-rima malastrucs si rimartella (identica o variata in malastres) all’interno d’ogni verso, lungo tutto il componimento, con un’ossessività meccanica che produce un effetto d’umorismo ironico» (Roncaglia):

 

Ar non sui jes mals et astrucs,

anz sui ben malastrucs de dreg;

e puois malastres m’a eleg

farai vers malastruc e freg.

Si trop un malastruc adreg

que.l malastruc cap mi pesseg!

 

Non sono affatto malo né fatato

ma sono malfatato diretto

e siccome il malfato m’ha eletto

farò un verso malfatato e freddo.

E se trovo un malfatato stretto

il capo sia fatto a pezzetto.

 

Conformemente alla poetica saturnina di Raimbaut d’Aurenga, il vers è «malastruc e freg»; tutto il componimento mostra la parola malastrucs in rima nel primo verso di ogni cobla e poi in ogni verso successivo la stessa parola o un suo affine (malastre, malastrugamen) si ripete senza una regola specifica, con l’effetto di continua e ossessiva iterazione. In latino astrum poteva significare, oltre che ‘stella, pianeta’, anche ‘sorte, destino’; da qui la neoformazione romanza *astrucus: variante di astrosus, *astrucus aveva un significato corrispondente a ‘votato a un destino crudele’, ma venne ad assumere un significato anche positivo per via della divaricazione dovuta all’assenza delle prefissazioni negative mal- o des-, che invece si vennero ad apporre per accentuare, del medesimo aggettivo, il significato infausto.

Il Donatz proensals, una grammatica occitanica del XIII secolo, traduce malastrucs con ‘infortunium passus’ e desastrucs con ‘infortunatus’. Viceversa con il suffisso ben- il provenzale accentuava l’influsso positivo del Fato e della Fortuna, ma si ricordi che in ebraico il gioco era duplice: Ben preposto al nome, oltre al significato che ha normalmente nelle lingue romanze, aggiungeva quello di ‘figlio di’.

In un sistema di relazioni testuali, basate in primo luogo su opposizioni retoriche, non poteva mancare una risposta al componimento in cui Raimbaut d’Aurenga fa vanto del proprio malfato, risposta che opponesse alla sfortuna amorosa l’essere benastruc del poeta: Eras, pus vey mon benastruc di Guillem Peire de Cazals è legato direttamente sia al testo di Raimbaut d’Aurenga che alla canzone XIV di Arnaut Daniel.

 

Eras, pus vey mon benastruc

temps, que quascus dezira’e vol,

ai cor q’ieu chant d’un’amistat

que’m fai ma domna’, e tant de grat;

per qu’ieu la dupte e la col

e soven n’aspir e n’aluc.

 

Ora, giacché vedo il mio fortunato

tempo, che ciascun desidera e vuole,

ho cuore ch’io canti d’un’amistà

che mi dà madonna, e tanto a grado;

per cui io la temo e la venero

e spesso a lei m’ispiro e di lei m’illumino.

 

Questa bella canzone è inviata ad un Ardit, altro nome di chiara ascendenza ebraica (nella lista sopra citata figura un Isaac Abraham Ardit che con la conversione prende il nome di Pere Ardit). Il componimento di Guillem Peire de Cazals ha la stessa struttura complessiva della «sestina»: 6 coblas di 6 versi più tre versi nel congedo, utilizzo di parole-rima. Si ricordi in proposito l’importanza centrale che ha il 6 nel simbolismo numerologico ebraico.

 

2. Arnaut l’escolier

 

Molta parte della poesia di Arnaut Daniel è giocata sul destino, sulla fortuna al gioco e in amore, sulla mutevolezza delle cose e dei sentimenti, sull’influsso benefico o malefico degli astri.

Il buon esegeta medievale avrebbe capito il carattere ludico, da simpatico debosciato, di questo personaggio, applicando il principio per cui nomen est omen, e constatando quindi che Arnaut, oltre che ‘folle’, significava anche ‘biscazziere’, ‘giocatore’, ‘débauché’. Nel Du Cange, s.v. Arnaldus, troviamo: ‘ganeo’, ‘nebulo’, ‘homo nihili’, ‘scortator’, e ancora ‘coquin’, ‘homme sans aveu’, e più giù lo troviamo nel drappello di «[...] persona ignota, soldato, meretrice, Arnaldo vel ribaldo [...]» da cui occorre, è naturale, guardarsi, come dai «[...] baraterios, Arnoldos, etc.». Arnauder, Arnaldorum more agere, poi, significano ‘molestiam inferre’, ‘vexare’. Dubitativamente ma per soprammercato «Haud scio an inde Hernoux sit appellatus vir, cujus uxor mœchatur, ipso tacente», senza contare arnaldia = ‘morbi species’, «sed incerta, nisi forte alopeia fuerit», e arnaldistae = ‘hæretici’, «ab Arnoldo Brixiano Clerico appellationem nacti».

Noi, meno nominalisti (ma non troppo, perché convinti che, anche se i nomi non sono le cose, se ci s’insiste lo possono diventare), possiamo inferire qualcosa sulla natura — vera o solamente letteraria — di questo «gran maestro d’amore» leggendo il famoso scambio di sirventesi (nel presente volumetto, oltre al I, che è poi, secondo l’ordinamento di Canello, il primo del canone arnaldiano, i componimenti Ia, Ib, Ic), edito nel 1936 da Contini e godibile anche nella bella traduzione di Pietro Tripodo.

La farsa dell’«affaire Cornilh» (così chiamò R. Nelli questo ciclo di testi) è stata efficacemente riassunta dal Canello, e quindi è con le sue parole che piace farla conoscere:

 

Un cavaliere caorsino, Bernardo di Cornilh, corteggiava donna Ina (o Ena o Aja o Maria, come leggono i diversi codici), la quale un giorno fece al cavaliere la proposta ch’egli dovesse cornarla in luogo ch’è bello tacere, ed ella gli concederebbe il suo amore. Bernardo rifiutò; la notizia della proposta e del rifiuto corse all’intorno e fu commentata in modo diverso dai cavalieri e dai trovatori, dal modo elegante, in somma, d’allora. Contro il cavaliere caorsino insorse specialmente Raimondo di Durfort, esso pure cavaliere, e prese a fulminare non solo lui, ma anche i suoi guirens, quelli che stavano dalla sua. Gli dice, che s’è lasciato consigliare (non da cavalieri ma) da serventi, e un servo egli stesso; che la cosa è solo spiegabile, ammettendo che Bernardo temesse di non aver vigore abbastanza a compiere l’opera; egli, Raimondo, si sarebbe condotto in modo ben differente; e non quella sola avrebbe servito, ma duecento, ma centomila. E faceva a Bernardo l’augurio, che potesse trovarsi in tali necessità da coprire una cavalla pregna.

Tra il primo e il secondo sirventese di Raimondo, fu scritto nello stesso metro il sirventese di A. Daniello [ma qui, giusta l'ordine di successione che Contini dette ai primi tre, appunto Ia, Ib e Ic, diventa l'ultimo della serie, cioè il quarto, e, come già ricordato, il I del canone[, che arriva fino alla canzone XVIII, la «sestina»]], il quale si schierò tra i difensori di Bernardo; e contro il difeso e il difensore si sfogò Raimondo nel secondo. «Bernardo (egli dice qui) è un disgraziato ancora più grande di Arnaldo lo scolare che si perde fra i dadi e il tavoliere, e mi ha l’aria d’un penitente, povero com’è di vesti e di denari».

 

Arnaut escolier (‘scolaro’) è quindi tratteggiato come giullare sfortunato di cui si mette in rilievo soprattutto la povertà e la propensione al gioco: dietro questo sembiante di giullare bohémien faremmo davvero fatica a ritrovare il «miglior fabbro del parlar materno», così come la critica ce lo ha dipinto per secoli. Non si può quindi non convenire con Canello, che ammoniva a non prendere i sirventesi «come la schietta espressione della coscienza de’ cavalieri del secolo XII, in rapporto agli amori contro natura», sostenendo egli che queste poesie rappresentavano «lo sfogo di capricci giovanili» ed erano state «composte inter pocula, da gente allegra e chiassona».

In effetti, i personaggi che popolano i testi dell’«affaire Cornilh» non sembrano affatto prodotti dalla realtà: se Arnaut è il pazzo giocatore, tutti gli altri hanno nomi in un certo senso «parlanti» (Raimondo da Duroforte, Bernardo da Corniglio, Trucco Malecca e Donna Inano). Arnaut Daniel, sebbene abbia un nome che fa parentado con il vero, è pur sempre l’unico autore dell’«affaire Cornilh» di cui possiamo con certezza affermare l’esistenza, di cui si abbiano altri testi, che sia, insomma, un trovatore riconosciuto. Degli altri non sappiamo nulla. Le loro prove poetiche possono limitarsi ai soli serventesi dell’«affaire», e i loro nomi esser tutti così legati all’ambito dell’osceno. Al punto in cui siamo, quindi, l’unico autore di cui si possa accertare l’esistenza potrebbe essere insieme l’artefice, l’inventore e l’autore di tutta la storia.

Ad Arnaut Daniel, insomma, non sappiamo a quale altezza della sua vita, ma quasi certamente assai giovane, non dispiaceva essere rappresentato (o rappresentarsi) come un escolier che giocava ai dadi e al tavoliere e aveva sempre bisogno di quattrini per poter giocare. Egli è «scolaro», appunto, e ioglar, chierico e giullare, poeta e giocoliere: la sua biografia ci dice che «amparet ben letras», rinviandoci alla tradizione dei letratz che si fanno giullari e poi muoiono in povertà. Una figura insomma del tutto assimilabile a quella del chierico vagante o del goliardo. Questo è un tratto indelebile della sua poesia ed è su questo che insisteremo.

Gianfranco Contini, del resto, lo aveva intuito:

 

E se l’«Arnaut escolier» di Raimon de Durfort, «que vay coma penedensiers, / paubres de draps e de deniers», fosse incontestabilmente il Daniel, quale soddisfazione ritrovare in lui addirittura un collega di Piero, anzi un chierico vagante di abitudini e di sapienza goliardiche! Questo fremente artefice sarebbe dunque stato un Primate in lingua volgare, un Villon del Millecento?

 

Ipotesi niente affatto in contrasto con quella dell’ascendenza ebraica: è nota infatti l’attenzione degli ebrei alla formazione culturale dei giovani, soprattutto nell’esegesi biblica (L. Paterson ha scritto che «L’insegnamento e il mantenimento delle scuole, inizialmente a livello elementare, era uno dei compiti principali delle comunità ebraiche»), ed è anche nota la propensione di alcuni ebrei al gioco d’azzardo, congiunto all’attività di prestito (M. García-Arenal e B. Leroy, in Moros y judíos en Navarra en la baja Edad Media, riportano un documento che riferisce di come un ebreo di Tudela, Juda Del Rencon, «fues acusado eyll aver jurado muchas vezes de non jugar a los dados, tomando sobre si escomunion si jugasse, e que crebantando las dichas juras, avia jugado ùmuchas vezes» [...], e adducono un altro documento in cui compare tal Jeuda Orabuena – anche qui nomen omen – «jugador» che «vive por los tableros, andando por Aragon e por Castilla»). Del resto Raimon de Durfort sembrerebbe far riferimento (Ic, IV strofe) proprio al nome primigenio del trovatore: «Pus etz malastrucx sobriers / non es Arnautz l’escoliers». Naturalmente, è da escludere che Arnaut Daniel fosse escolier in una delle scuole ebraiche: la sua cultura e le sue affermazioni in poesia mostrano chiaramente che la formazione doveva essere avvenuta in una delle tante scuole cristiane del Midi della Francia: ciò che si vuole mettere in rilievo è che l’eventuale ascendenza ebraica in nulla osterebbe ad una cultura di tipo scolastico.

 

3. Un’arte ludica

 

Per i trovatori la concordanza estetica corrispondeva alla congruenza formale della canso. L’esplicitazione del concetto si trova nettamente in Autet e bas entre·ls prims fuelhs (VIII, In alto e in basso fra le primefoglie), dove la gioia per la stagione primaverile dà impulso al canto perché il poeta è assalito da Amore, che accorda le parole con la melodia: sia la consonanza fra il canto degli uccelli e il canto del trovatore sia la relazione causale fra Amors e l’accordo del chan costituiscono gli elementi di giuntura delle concezioni estetiche cristiane con l’idea dell’armonia mundi.

Accordo con la natura, accordo con la donna amata, accordo fra musica e parole, accordo «cortese»: la canso rappresenta la proiezione sul terreno del microcosmo trobadorico di quella concordia dell’universo di cui parlavano i teologi e i poeti che scrivevano in latino. In questo contesto ideologico, la rima ha una funzione musicale, ed è non solo un abbellimento sovrastrutturale al canto, ma anche parte sostanziale del riverberarsi in esso dell’armonia del cosmo.

Arnaut Daniel fa della forma della canso un elemento fondante della propria ideologia, e non a caso sarà un cultore quasi esclusivo di questo genere. Forte d’una tradizione poetica matura, egli imprime un’accelerazione decisiva sulla strada (probabilmente già aperta da Raimbaut d’Aurenga) dell’imposizione alla struttura della canso di implicazioni significative non evidenti. Con la «sestina» estremizza il discorso, aprendo una nuova strada da esperire in tutte le sue potenzialità: quella dell’elemento ludico nascosto dalle strutture formali (ma anche rivelato, se — come fa Arnaut rispetto ad Amore nella canzone II — se nesegue la traccia).

Ritengo che l’elemento esoterico che alcuni critici hanno voluto vedere nella «sestina» d’Arnaut Daniel consista semmai nel culto per il gioco dei dadi: la struttura permutativa, infatti, risponde alla serie numerica 6-1-5-2-4-3, che coincide con la ripartizione dei punti sulle facce del dado (sotto il 6 c’è l’1, sotto il 5 il 2 e sotto il 4 il 3).

L’allusione al gioco è manifestata e nello stesso tempo occultata attraverso un meccanismo raffinatissimo, assolutamente implicito: quello dei popolari e aristocratici dadi, ch’erano stati osteggiati dal moralista Marcabru e delle cui metafore s’era già servito con istrionesca leggerezza Guglielmo IX, e ai quali aveva poi affidato il compito di esemplificare la sua conoscenza di Amore Raimbaut d’Aurenga (il trovatore che aveva composto, così Roncaglia, «l’antecedente più prossimo della sestina d’Arnaldo», Ar resplan la flor enversa); con la morte di lui, secondo Giraut de Bornelh, era morto quel gioco stesso. Il «miglior fabbro» s’era forse voluto richiamare al glorioso precedente di Raimbaut d’Aurenga, ma forse anche alla propria personale esperienza di giocatore confuso dalla diabolica danza aleatoria.

Roberto Antonelli scriveva nel 1972 che con la «sestina» si ha a che fare con un testo «che di fatto ha costituito per secoli quasi il senhal di un’esperienza intellettuale volta ad autoriconoscersi come tale e ad individuare per suo mezzo un pubblico particolarmente selezionato». L’apertura di questa forma alle più varie interpretazioni ne testimonia l’importanza e il fascino, indipendentemente dall’ideologia sottesa nel momento dell’invenzione.

La storia della ricezione della «sestina» (e forse del trobar) è la storia d’un occultamento e d’una censura. Carducci, ad esempio, sulla scia del Canello, trasformava abilmente questa forma ludica in «un metro mestamente serio» e lo leggeva, forse per mediazione dantesca, come «un cerchio quasi incantato, nel quale gli oggetti fantastici e i reali, e le percezioni e i sentimenti e le visioni si presentano e ripresentano alla mente con successioni di parvenze differenti ma sempre gli stessi» (l’articolo è pubblicato la prima volta sulla Domenica del Fracassa del 17 maggio 1885).

Le altre, infinite, rappresentazioni simboliche sono importanti nella storia della ricezione, e ne fa motivo d’interesse il fatto che ad esse possano essersi applicati poeti come Dante, Petrarca, Schlegel, Queneau, Jorge de Sena e critici come Mari, Roncaglia e Tavera. Non dovremo però mancare d’insistere sul fatto che esse, insieme ad altri elementi, hanno contribuito, oltre all’adozione dantesca e quindi alla creazione petrarchesca della forma fissa, anche all’oscuramento di quella che si può definire la «metafora metrica» della poesia del trobar; sicché il passaggio progressivo dal ludico di Arnaut Daniel al «mestamente serio» di Carducci è emblematico di tutto un modo di intendere (e fare) poesia.

La struttura della canso d’ongl’e d’oncle è parlante; rivela il senso profondo dell’arte trobadorica e dell’ideologia d’Arnaut Daniel: è la rappresentazione di un’arte disimpegnata, è mostra delle casuali geometrie di Amore, e nello stesso tempo la metafora numerica del Caso (pure radicalizzandosi lì il senso del poeta come dominatore sulla materia, fabbro che gioca alla creazione con exordia rerum bisillabici): manifestazione estrema delle possibilità della Forma e dichiarazione esplicita della coincidenza fra l’amore per la donna e l’amore per la retorica.

 

4. Il «trobar a frau»

 

Nella prima cobla della «sestina» il maldicente «pert per mal dir s’arma» (cioè perde, per far lui maldicenza, la sua anima) nel vano tentativo di scalfire il fermo desiderio dell’amante: questi invece riuscirà a ottenere la gioia desiderata utilizzando a proprio favore la frau («sivals a frau, lai on non aurai oncle, / jauzirai joi, en vergier o dins cambra», «con frode almeno ove non avrò zio / gioirò di gioia in verziere od in stanza»).

Nel ricordare che la fraus era una delle componenti centrali dell’ideologia dei vagantes (che cantavano: «in taberna / fraus eterna»), sottolineeremo come la valorizzazione della frode abbia anche un preciso obbiettivo polemico sul terreno trobadorico. Nel componimento di definizione della propria poetica, Lo vers comens quan vei del fau, il trovatore Marcabru oppone al trobar naturau il «trobar a frau / mot de roïll», «trovar con frode / parole di ruggine». Qui Marcabru rivendica la propria superiorità nell’arte e se la prende con i trovatori d’infimo grado, che lo accusano di noiosa pedanteria:

 

E segon trobar naturau

port la peir’e l’esc’e·l fozill,

mas menut trobador bergau

entrebesquill,

mi tornon mon chant en badau

e·n fant gratill.

 

Come richiede schietto poetare,

porto la pietra e l’esca e l’acciarino,

ma ronzanti poetucoli

arruffati

mi volgono il mio canto in baia

e ne fanno beffe. (trad. Roncaglia)

 

Si sa che Marcabru «àncora il proprio canto alla natura, intesa come materia dell’arte» (Roncaglia): il trobar naturau segue l’ordo naturalis, non ha bisogno della pialla o della lima della falsa retorica; poiché illumina e riscalda è paragonato alla tecnica di accensione del fuoco, non all’arte del fabbro o dell’orafo: la peira è la pietra focaia che, colpita dal fozill (il «fucile») di ferro o d’acciaio (l’acciarino appunto), fa sprizzare scintille.

Se è vero che all’inizio del componimento Marcabru contrappone naturaus ‘schietto’ a entrebeschat ‘artificiato, falso’, è vero anche che alla fine del testo ritorna sul motivo per dare un colpo di coda a quei piccoli trovatori entrebesquill, che intrecciano e filano una tela artificialis, e con ciò tornon en badau la sua opera:

 

Marcabru ditz que no·ill en cau

qui quer ben lo vers’a·l foïll,

que no·i pot hom trobar a frau

mot de roïll,

intrar pot hom de lonc jornau

en breu doïll.

 

Marcabruno dice che non gliene importa

se alcuno frughi il «verso» col frucone:

ché non vi si può trovare nascosta

parola rugginosa,

entrare si può con lunga fatica

nel minimo pertugio. (trad. Roncaglia)

 

La ruggine delle parole, quindi, se ne sta solamente nella falsa retorica dei suoi detrattori.

L’esplicito recupero della frau da parte di Arnaut Daniel, mai commentato nella maniera dovuta a un’affermazione tanto «eversiva» rispetto ai cànoni dell’etica sia cristiana che cortese, avrà forse fatto i conti anche con questo passo marcabruniano: per il trobar la frode espressa nella metafora aleatoria è anche, e soprattutto, quella delle parole.

Se per Marcabru è contro natura «il nuovo erotismo galante che si diffonde nel mondo cortese, le teorie che cercano di giustificarlo con speciosi sofismi, i canti che lo celebrano con insinuante suggestione» (Roncaglia), tutto ciò è invece perfettamente conforme all’ideologia cortese di Arnaut Daniel, esponente sia pur implicito del «trobar a frau», della manifestazione assolutizzata dell’arte retorica e delle possibilità che essa offre nella permutazione delle rime e nell’organizzazione ingannevole del linguaggio[ — ciò che poi, leggendo ancora Contini, se si potesse mai rifavoleggiare del «troppo favoleggiato divorzio» Dante-Petrarca quanto al supremo linguaggio poetico della nostra Italia, supremo linguaggio di cui Arnaut Daniel «è comunque un responsabile necessario», porterebbe direttamente al fatto che il trovatore «a appris à Pétrarque à élaborer des paroles pratiquement “vides”, donc toutes prêtes à se remplir d'allusions sémantiques» (Préhistoire de l'aura de Pétrarque)].

Nella «sestina» il potenziale ingannato dall’arte danielina, dalla razo daurada, è lo zio, l’oncle: si tratta, credo, di un riferimento allo zio di Eloisa, Fulberto, grande oppositore della storia d’amore con Abelardo.

Della fraus perpetrata a scapito dell’ignaro avunculus Abelardo parla esplicitamente nell’Historia calamitatum (lettera I):

In huius itaque adolescentulae amorem totus inflammatus, occasionem quesivi qua eam mihi domestica et cotidiana conversatione familiarem efficerem et facilius ad consensum traherem. Quod quidem ut fieret, egi cum praedicto puellae avunculo quibusdam ipsius amicis intervenientibus, quatinus me in domum suam, que scolis nostris proxima erat, sub quocumque procurationis precio susciperet.

 

Tutto già innamorato di questa giovinetta, cercai l’occasione di parlare con lei familiarmente ogni giorno per rendermela amica e attirarla più facilmente al mio amore. Per raggiungere il mio scopo trattai con lo zio della fanciulla del quale ho già fatto cenno, tramite certi suoi amici, perché mi accogliesse come pensionante nella sua casa, che era vicina alla scuola, al prezzo che gli piacesse (trad. N. Cappelletti Truci, come anche per la maggior parte dei passi che seguono).

 

Il verso «sivals a frau, lai on non aurai oncle» sembra quasi una traduzione di «Quadam itaque nocte avunculus ejus absente, sicut nos condixeramus, eam de domo avunculi furtim sustuli…» (qualche pagina oltre, sempre nella prima lettera e dopo che Eloisa s’accorge d’aspettare un figlio). «Allora, in una notte in cui lo zio era assente, dopo esserci prima messi d’accordo, la rapii nascostamente da quella casa».

L’entrata furtiva nella camera di lei (anzi in un angolo del refettorio, nel chiostro dove s’era rifugiata la donna) e l’inganno allo zio, sono richiamati nella lettera V dallo stesso Abelardo:

 

Nosti post nostri confoederatione coniugii, cum Argenteoli cum sanctimonialibus in claustro conversareris, me die quadam privatim ad te visitandam venisse, et quid ibi tecum meae libidinis egerit intemperantia in quadam etiam parte ipsius refectorii, cum quo alias diverteremus, non haberemus. Nosti, inquam, id impudentissime tunc actum esse in tam reverendo loco et Summae Virgini consecrato. Quod, et si alia cessent flagitia, multo graviore dignum sit ultione. Quid pristinas fornicationes et impudentissimas referam pollutiones, quae coniugium praecesserunt? Quid summam denique proditionem meam, qua de te ipsa tuum, cum quo assidue in eius domo convivebam, avunculum tam turpiter seduxi? Quis me ab eo iuste prodi non censeat, quem tam impudenter ante ipse prodideram?

 

Tu sai bene che dopo il nostro matrimonio, quando dimoravi con le monache nel chiostro di Argenteuil, io son venuto un giorno a trovarti furtivamente, e sai quel che ho preteso da te, intemperante com’ero, proprio lì, in un angolo dello stesso refettorio, perché non avevamo altro luogo per il nostro piacere. Sai bene, dico, quanto spudorato sia stato il comportarsi così in un luogo venerabile, consacrato alla Vergine. Anche in assenza di altre colpe, questa sarebbe già degna di una punizione anche più grave. Ti devo forse ricordare i primi peccati carnali e le vergognosissime sozzure che precedettero il nostro matrimonio? E che dire infine del mio enorme tradimento con cui per cagion tua ho ingannato turpemente tuo zio, proprio nella sua casa dove egli mi aveva accolto? Chi può non trovar giusto che egli mi abbia tradito, dal momento che ero stato io per primo a tradirlo vilmente?

 

Sempre nella lettera V è più d’una volta ricordato il Cantico dei Cantici, I,4, con la variante della pre-Vulgata: «Ideo dilexit me rex et introduxit me in cubiculumsuum»; e più oltre: «Bene etiam [...] dilectam et introductam se dicit in cubiculum regis, id est, in secretum vel quietem contemplationis, et lectulum illum de quo eadem alibi dicit: “In lectulo meo per noctes quaesivi quem diligit animamea”» (Cantico III,1); più oltre anche Matteo VI,6: «Hoc autem praedictum sponsae cubiculum illud est ad quod ipse sponsus in Evangelio invitat orantem, dicens: “Tu autem cum oraveris, intra in cubiculum et clauso ostio, ora Patrem tuum”»; più sotto la I lettera ai Corinzi VI,17: «Vos autem quae incubiculum coelestis regis ab ipso introductae atque in eius amplexibus quiescentes, clauso semper ostio, ei totae vacatis, quanto familiarius ei adhaeretis, iuxta illud Apostoli: “Quiadhaeret Domino unus spiritus est”, tanto puriorem et efficaciorem habere confidimus orationem».

Della virga parla Abelardo nella preghiera che Eloisa dovrà recitare per lui: «Puni ad horam, ne punias in aeternum. Accipe in servos virgam correctionis, non gladium furoris. Afflige carnem, ut conserves animam», da confrontare con «de lauzengiers que pert per mal dir s’arma / E pos non l’aus batr’ab ram ni ab verga», «di falso che in maldire perde l’alma; / se non l’oso colpir con ramo o verga» (ancora la «sestina», prima cobla). Saranno allora, di nuovo nella lettera I, da considerare anche il punire (vehementer constringere) e le percosse (verbera) che Fulberto permette, anzi raccomanda che alla nipote vengano date da parte di Abelardo; i termini si duplicano in poco spazio, finché il ritorno delle percosse non rivela la loro vera natura: «Quoque minus suspicionis haberemus, verbera quandoque dabat amor, non furor, gratia, non ira, que omnium unguentorum suavitatem transcenderent».

Così ancora lo stesso Abelardo a Eloisa: «Accipe itaque, soror, accipe, quaeso, patienter quae nobis acciderunt misericorditer. Virga haec est patris, non gladius persecutoris. Percutit pater ut corrigat, ne feriat hostis ut occidat [...]; corpus vulnerat, et animam sanat».

Ed è inutile ricordare che la verga è spesso associata agli scolari fino a questo tardo testamento dell’asino: «Vocem dat cantoribus, / collum potatoribus, / virgam dat scholaribus» («dà la voce ai cantanti, il collo ai bevitori e la verga agli scolari»), ma anche, ad esempio, in questo rondeau di Charles d’Orleans:

 

[E]scollier de Merencolye,

Des verges de soussy batu,

Je suys a l’estude tenu

Es derreniers jours de ma vye.

 

Scolaro di Malinconia,

battuto dalle verghe di preoccupazione,

mi sono attenuto agli studi

fino agli ultimi giorni della mia vita.

 

A tutto ciò si alleghi, a titolo esemplificativo di un settore tuttora inesplorato, questo passo da Apponius, In Canticum canticorum expositio (Cl 194, lib. 3 l. 778), dove troviamo tre delle sei parole-rima presenti nella sestina:

 

Ubi pro ludibrio riduntur incendia, ubi camini in peripata convertuntur, amphiteatra in paradisum, craticulae et sartagines in mollissimam plumam, flammarum globi in gratissimos flores, liquefactum plumbum in balsamorum unguenta, flagellorum virgarumque et ungularum sulcatio in penicillis delicatissimis, quibus anima ab omni peccatorum sorde extersa, ad antiquam pulchritudinem revocata, suo redditur creatori.

 

Ugualmente intra, come imperativo latino, lo ritroviamo in clausola in questo epigramma mediolatino (è nel codice Riccardiano 688 e nel codice di Berna 211):

 

Intus quis? Tu quis? Ego sum. Quis queris? Ut intrem.

Fers aliquid? Non. Esto foris. Fero. Quid? Satis. Intra.

 

L’ultima lettera di Abelardo, la settima, si chiude con un senso [certo] non estraneo all’apertura della «sestina»: «Haec itaque est fides in qua sedeo, ex qua spei contraho firmitatem. In hac locatus salubriter [...]. Si irruat turbo, non quatior. Si venti perflent, non moveor. Fundatus enim sum supra firmam petram».

La ripresa della storia abelardiana non è disgiunta dall’attenzione alla Dialettica e alla Retorica operante presso i trovatori di riferimento per Arnaut Daniel: Abelardo, sommo studioso dell’ambiguità delle parole, dei testi e dei pensieri, era quasi il simbolo della Dialettica, oltre ad essere, secondo un’ipotesi di Gaston Paris che andrebbe rimeditata, il primo dei goliardi («L’essentiel est que les goliards sont, suivant toute vraisemblance, originaires des écoles de Paris, que leur patron, d’ailleur involontaire, est Abailard»). A ciò si aggiunga che la famosissima Metamorphosis Goliae episcopi, scritta da un allievo di Abelardo, (anche) come apologia del maestro Palatino, ha un incipit astrologico, Sole post arietem taurum subintrante, singolarmente simile a quello (unicum nella poesia provenzale) di una canzone attribuita ad Arnaut Daniel, Entre·l taur e·l doble signe.

Ora non potremo non ricordare quella «falsa razo daurada», i sofismi simboleggiati dal dado piombato cui si opponeva Marcabru, e di cui invece Abelardo era considerato il massimo fautore dai suoi detrattori (e in particolare da San Bernardo).

Corrado Bologna ha del resto dimostrato che quella che può essere considerata l’auctoritas principale di Arnaut Daniel, cioè Raimbaut d’Aurenga, aveva fatto precisi riferimenti e allusioni alla vicenda biografica e culturale di Abelardo, in particolare nella poesia Lonc temps ai estat cubertz. Il riferimento all’oncle e alla storia abelardiana, l’allusione alla poetica abelardiana di Raimbaut d’Aurenga, le precise citazioni presenti qua e là nelle poesie di Arnaut Daniel e la definizione della «sestina» con termini che rinviano a questo particolare contesto, sono tutti elementi che interagiscono, a formare un sistema ideologico di grande compattezza.

 

5. La «falsa razo daurada»

 

La vida c’informa che Arnaut Daniel «amparet ben letras e fetz se joglar, e pres una maniera de trobar en caras rimas, per que sa cansons no son leus ad entendre ni ad aprendre» («apprese bene le lettere e divenne giullare, e si mise a comporre nella maniera preziosa: perciò le sue canzoni non sono facili da capire né da imparare»). Egli è un esponente di quella «corrente» poetica denominata (a proposito o meno) del trobar car, cioè dello stile ricercato e prezioso. Come lui, Raimbaut d’Aurenga, che «fo bons trobaires de vers e de chansons; mas mout s’entendeit en far caras rimas e cluzas» («fu buon trovatore di vers e di canzoni, ma molto amava comporre rime preziose e oscure»). Raimbaut d’Aurenga è, come s’è visto, un maestro importante per Arnaut Daniel: il principio dell’utilizzazione di parole-rima (anche se con diversa permutazione interstrofica) della «sestina» è molto probabilmente ripreso dalla magnifica canzone invernale (la già ricordata Arresplan la flors enversa) del conte d’Orange.

L’utilizzo esclusivo dell’arte retorica aveva avuto la sua giustificazione di valore nella famosa tenzone, databile intorno al 1170, in cui Giraut de Bornelh aveva preso partito per il trobar leu e Raimbaut d’Aurenga per il trobar clus. L’argomentazione difensiva di Raimbaut d’Aurenga si fondava sulla differenza qualitativa che sussiste fra i due stili: secondo tale concezione il trobar clus sarebbe da preferire al trobar leu poiché questo rende uniformi tutte le composizioni. Il trobar clus, invece, è più prezioso (plus car) e per tale ragione vale di più.

La fondazione di una maniera preziosa dello stile trobadorico, denominata trobar car o prim o ric, passa attraverso il recupero, operato essenzialmente da Raimbaut d’Aurenga (ma in buona parte anche da Peire d’Alvernhe), del sostanzioso trobarnaturau marcabruniano. Quella forma preziosa del trobar è stata inoltre considerata da buona parte della critica che s’è occupata dell’argomento come la sintesi, realizzatasi fra la metà e la fine del XII secolo, dei due stili leu e clus: del primo avrebbe sussunto la nettezza dei contenuti e del secondo la ricchezza lessicale, retorica, stilistica; ricchezza che avrebbe avuto la sua manifestazione più forte ed evidente soprattutto in sede rimica.

Nella poetica degli autori del trobar car la forma è dichiaratamente l’espressione conveniente della fin’amor: è per tale ragione che il contenuto della poesia deve viceversa essere facile a intendersi.

Il trobar car ha inoltre un’importante connotazione, che circoscrive un aristocratico disegno di assimilazione del preziosismo all’oscurità e al «poco giorno»: lo stile prezioso è scuro come l’inverno, lo stile piano è chiaro come la bella stagione. È Dejosta·ls breus temps e·ls lonc sers di Peire d’Alvernhe, un componimento la cui eccellenza sul piano melodico è dichiarata nella vida del trovatore, a segnare l’inizio del nuovo modo di comporre e a imprimergli un marchio che giungerà fino alle rime petrose di Dante. Arnaut Daniel non si è ovviamente sottratto a questa tendenza; in più ha desunto, come al solito, motivi precisi dai testi latini letti a scuola. Si leggano le prime due strofe della canzone III:

 

Quan chai la fuelha

dels aussors entressims

e·l freg s’erguelha

don seca·l vais e·l vims,

dels dous refrims

vei sordezir la bruelha:

mas ieu sui prims

d’Amor, qui que s’en tuelha.

 

Tot quant es gela,

mas ieu no puesc frezir

qu’amors novela

mi fa·l cor reverdir;

non dei fremir

qu’Amors mi cuebr’e·m cela

e·m fai tenir

ma valor e·m capdela.

 

In un ms. proveniente da S. Marziale di Limoges (Paris, B. N. lat. 3719, fol. 42) troviamo un conductus profano straordinariamente simile (incipit identico, clausole con medesime vocali nella prima strofe, perfetta identità fra l’inizio della seconda cobla della canzone provenzale e la quarta strofe del testo latino qui riprodotta):

 

De ramis cadunt folia,

nam viror totus periit;

iam calor liquit omnia

et habiit,

nam signa celi ultima

sol peciit.

… [...]

Modo frigescit quiquid est,

sed solus ego caleo,

immo sic michi cordi est

quod ardeo;

hic ignis tamen virgo est

qua langueo.

 

Cadono le foglie dai rami, tutto il verde muore; già il calore ha abbandonato ogni cosa ed è fuggito: infatti il sole avanza verso le ultime costellazioni del cielo… [?//] Ora tutto quanto gela, ma solo io resto caldo, anzi di più, il mio cuore mi fa ardere; e questo fuoco è la donzella per la quale languisco.

 

Al testo sammarzialese allegherei, per mostrare la compattezza della tradizione letteraria cui Arnaut fa riferimento, questo famoso carmen buranum:

 

Sevit aure spiritus,

et arborum

come fluunt penitus

vi frigorum;

silent cantus nemorum.

Nunc torpescit vere solo

fervens amor pecorum;

semper amans sequi nolo

novas vices temporum

bestiali more.

 

Il vento gelido inasprisce e le chiome degli alberi volano via per il freddo; tacciono i canti dei boschi. Ora intorpidisce l’amore degli animali, fervente in primavera; ma io, sempre innamorato, non voglio seguire il mutare delle stagioni come fanno le bestie.

 

Agli esempi tratti dalle poesie latine, molti se ne potrebbero aggiungere presi direttamente dalla poesia provenzale: in effetti c’è un’ideologia saturnina, di rivalutazione del freddo e dell’oscuro, dietro il trobar car, che potrebbe essersi riverberata, con la mediazione di Raimbaut d’Aurenga, anche nell’opera di Arnaut Daniel. Proprio Raimbaut d’altro canto, in un componimento le cui coblas cominciano tutte con Car, traccia una precisa corrispondenza fra il preziosismo, l’oscurità lessicale e le capacità dell’artista di limare la ruggine delle parole. Cars, douz e feinz del bederesc costituisce con evidenza una tappa importante nel rapporto di relazioni fra Marcabru, Raimbaut d’Aurenga e Arnaut Daniel, così come nell’impresa che porta alla completa valorizzazione della maniera preziosa: s’è già parlato di Cars, douz e feinz come di una possibile fonte della verga presente in Lo ferm voler (XVIII, la «sestina»). Anche per tale ragione le dichiarazioni di poetica in essa contenute andranno valutate attentamente;eccone la II strofe:

 

Cars, brun e tenz motz entrebesc:

pensius, pensanz, enquier e serc -

com si liman pogues roire

l’estrain roïll ni·l fer tiure -

don mon escur cor esclaire.

Tot cant Jois genseis esclaira

Malvestatz roïll’e tiura,

e enclau Joven en serca

per q’Ira Joi entrebesca.

 

Preziose brune e tinte parole allaccio

pensoso, pensante, vado cercando

come, limando, possa corrodere

la ruggine estranea e il calcare del ferro

e con ciò schiarire il mio cuore oscuro.

Tutto ciò che la Gioia meglio rischiara

Malevolenza arruginisce e calcifica

e rinchiude Gioventù e la circonda;

allora Ira s’intrica con Gioia.

 

Il nesso fra l’oscurità del cuore del poeta e lo stile della poesia è patente, come anche la funzione centrale del fabbro che lima il ferro così come Jois rischiara il cuore arrugginito da Malvestatz. Il legame fra l’intimo del poeta e l’esplicitazione del sentimento nella poesia è cioè chiaramente messo in relazione con la capacità artigiana.

L’allusione a Marcabru si manifesta, a mio avviso, già nel primo verso di questa cobla, con quel Cars, bruns, che non poteva non richiamare il «nome di Marcabru». Ma la parodia del trovatore d’Orange va ben oltre: s’è visto che la polemica marcabruniana era diretta contro i «menut trobador bergau / entrebesquill», cui evidentemente Raimbaut d’Aurenga assimila se stesso quando afferma di «entrebescar motz», mentre Marcabru affermava orgogliosamente la propria superiorità, ribadendo l’impossibilità di trovare «mot de roïll» nei propri vers.

Raimbaut afferma che, suo malgrado, la ruggine non è solo nelle parole, ma incrosta anche il suo cuore: solo con il lavoro di lima essa può essere rimossa, sia dal vers che dal cuore. È quindi il lavoro artigianale, il labor limae, l’utilizzo dell’arte retorica, che può rischiarare la poesia e depurare il sentimento inquinato da una connaturata Malvestatz.

La polemica e la dichiarazione di poetica, quindi, non potrebbero essere più chiare: al moralista che si era opposto alla «falsa razo daurada» che sempre più prendeva il passo a quei tempi, Raimbaut d’Aurenga rispondeva che la chiarezza, la limpidezza dei concetti e delle parole (sottratte all’inverno originario, che pur sempre impronta di sé la poesia rambaldiana) proviene dal lavoro fabbrile. Raimbaut d’Aurega si inseriva così fra gli esponenti del «trobar a frau»: coloro che trovano con l’inganno [<?] i difetti del comporre marcabruniano e che dell’arte retorica rappresa nel proprio comporre fanno perno.

Gli stessi concetti, sia pur mediati e posti al servizio di un trobar solo apparentemente più leu, sono presenti in un altro testo di Raimbaut d’Aurenga, molto importante per definire le radici dello stile poetico di Arnaut Daniel, En aital rimeta prima; in esso s’individua sia il motivo della ruggine che quello della lima, unitamente a una serie di rinvii al fare artigiano e muratorio, e a più motivi d’ispirazione che saranno tipici dello stile d’Arnaut Daniel [(miei i corsivi nell'originale)]:

 

En aital rimeta prima

M’agradon lieu mot e prim

Bastit ses regl’e ses linha,

Pos mos volers s’i apila;

E atozat ai mon linh

Lai on ai cor qe m’apil

Per totz temps, e qi·n grondilha

No tem’auzir mon grondilh

 

De la falsa genz de lima

E dech’e ditz (don quec lim)

Ez estreinh e mostr’e guinha

(So don Joi frainh e esfila),

Per q’ieu sec e pols e guinh:

Mas ieu no·m part del dreg fil,

Car mos talenz no·s roïlha,

Q’en Joi nos ferm ses roïlh

 

In questa canzoncina fine

mi piacciono lievi parole e fine,

costruite senza regolo o linea,

giacché il mio desiderio vi si radica;

e attosato ho il mio legno,

là dove ho desiderio d’appoggiarmi

per sempre, e chi ne strilla

non tema udire i miei strilli.

 

Di falsa gente che lima,

dichiara e sparla (onde tutti io limo)

e costringe e mostra e addita

(per questo Gioia è distrutta e rovinata)

per cui mi secco e ansimo e ghigno,

ma non mi allontano dal filo diritto,

perché il mio desiderio non arrugginisce

che ci blocca in Gioia senza ruggine.

 

In questa canzone è sicuramente da vedere il nucleo generatore di Canso do·ill mot son plan e prim, un testo di Arnaut Daniel (canzone II) con una tradizione manoscritta pari a quella della «sestina» e ad essa [≠] associato [≠] in più manoscritti. Il legame di Canso do·ill mot son plan e prim con En aital rimeta prima è denunciato dall’incipit, forgiato sul secondo verso, «M’agradon lieu mot e prim», ed è ribadito con la ripresa sistematica delle parole con rima in -im presenti nelle prime tre strofe della rimeta. La dichiarazione di Arnaut Daniel di voler comporre «con arte d’Amore» è accompagnata dunque da un esplicito rinvio alla rimeta di Raimbaut d’Aurenga. Si legga il passo arnaldiano:

 

Pels bruelhs aug lo chan e·l refrim,

e per qu’om no m’en fassa crim

obri e lim

motz de valor

ab art d’Amor

 

Pei boschetti odo il canto e il cinguettio

e perché non mi si faccia accusa

lavoro e limo

parole di valore

con l’arte di Amore

 

Anche la dittologia «ard’e rim», che troviamo in un altro luogo della canzone arnaldiana («dreitz es lacrim / e ard’e rim / sel que d’amor janguelha», «giusto è che frigni, / bruci e si strini / lui che l’amore imbroglia»), richiama, oltre che un passo dello stesso autore, anche l’inizio della strofe della rimeta di Raimbaut d’Aurenga («Si que·l cor m’art, mas no·m rima / Ren de foras, mas dinz rim»). L’ardere del cuore, rappresentato mettendo in rima la parola rima non poteva sfuggire al fabbro che lima parole con arte d’Amore.

La maestria artigianalee il gioco sono due elementi che, tenuti a battesimo da Guglielmo IX, ritornano spesso a caratterizzare il trobar: in Ab gai so cuindet e leri (X del canone) i due elementi del mester (‘mestiere’) e del joc (‘gioco’) sono ancora una volta associati alla poetica o alle virtù sentimentali del trovatore. L’intero componimento è intessuto di metafore volte a esprimere il legame fondamentale fra amore e arte.

Se nella Canso do·ill mot son plan e prim Arnaut Daniel afferma di essere un fabbro della poesia per mezzo dell’«arte d’Amore», che dà «valore» alle parole, qui nella X la metafora viene dilatata a tutto il componimento. Il riferimento alla rimeta rambaldiana è chiaro sia nel tono generale dell’incipit («Ab guai so cuindet e leri / fas motz e capus e doli», «Con gaio suono lieto e lieve / faccio e squadro e piallo parole» vs «En aital rimeta prima / m’agradon lieu mot e prim / Bastit ses regl’e ses linha») sia nell’andamento metrico eptasillabico sia nei continui riferimenti all’operare dell’artigiano. In Ab guai so la verità delle parole è direttamente legata al labor limae del poeta, la coscienza della veridicità è in rapporto con la retorica: la posizione di Arnaut è quindi opposta a quella di Marcabru, critico della «falsa razo daurada».

Per Arnaut Daniel è Amore che indora le parole, è Amore che porta il poeta all’utilizzo di quegli artifici criticati dal grande moralista. L’Amore che canta Arnaut Daniel è in grado di apportare un miglioramento, un dirozzamento nell’animo come nelle parole: è Amore la causa del perfezionamento sentimentale e retorico del poeta. In Ab guai so ritorna particolarmente insistente il motivo del disinteresse del poeta nei confronti dei beni materiali e degli onori mondani ed è accennato il tema della perdita per «troppo volere» (vv. 23-24), che non sarà senza relazione con la rovinosa predilezione di Arnaut per il gioco d’azzardo. Il maltraire del poeta è comparato a quello del lavoratore (v. 40). Termini come capus («squadro»), doli («piallo»), escrima (‘difesa’, ‘scherma’, «ancile» nella presente traduzione), s’aisaura (‘svanisce’, ‘svapora’, qui «va per aria»), renueu (‘usura’), laura (‘lavora la terra’, ‘lavora penosamente’, qui «ara»), bueu (‘bue’), o locuzioni come «qu’anc non amet plus d’un hueu» (v. 41, «ché non amò più d’un uovo»), contribuiscono a dare al componimento un duplice registro stilistico, giocato nello stesso tempo sulla ricercatezza e sul livello basso del linguaggio: il lavoro, l’usura, la caccia sono motivi che fanno da contrappunto al dichiarato disprezzo dei beni terreni a favore dell’amore per la donna. Gli ultimi due versi della quarta strofe vanno, a mio avviso, letti così: «tant ai de vers fag renou / q’obrador n’ai e taverna», «tanto ho fatto usura dei miei versi che ne ho officina e taverna»: l’officina e la taverna di Arnaut Daniel sono quelle che egli ha ottenuto mettendo a profitto il proprio poetare e i propri sentimenti veritieri (vers può infatti far riferimento, oltre che alla poesia, alle verità sentimentali). Si ricorderà a proposito di questa interpretazione che una delle professioni più diffuse fra gli ebrei era proprio quella del prestito a interesse (qui renou): Arnaut Daniel, trovatore di ascendenza ebraica, rivendica per sé quest’attività, ma ribadisce che non sarà il denaro ad essere messo a profitto, bensì la stessa poesia. Il canto di Arnaut Daniel usura e si usura, ma nello stesso tempo è capace di rinnovarsi (anche a ciò allude la parola renou) proprio attraverso le metafore artigianali e ludiche.

In questo quadro ritengo sia possibile fornire anche un’ulteriore spiegazione del famoso verso 43: «Ieu sui Arnaut qu’amas l’aura», «Io sono Arnaut che ammassa l’aura». Al mondano ammassare «thezaur» o «l’aur» Arnaut Daniel oppone il suo «ammassar l’aura»; il gioco è evidente; anche qui viene rivendicata la rinuncia alle ricchezze terrene: non l’aur ma l’aura, non l’oro ma l’aria. D’altronde il secondo verso del congedo, «e cas la lebre ab lo bueu», se fa riferimento a un topos antico e radicato nella tradizione (Spaggiari), potrebbe anche contenere un’allusione al gioco della «caccia alla lepre» di probabile origine ebraica (il tavoliere rappresentato nella bella miniatura del Libro de los juegos di Alfonso X è contornato di stelle davidiche).

Una poetica del disprezzo delle cose terrene, materiata di riferimenti realistici. Il lavoro del poeta allontana dai beni materiali; l’Amore per la Donna, anche se è più duro del lavoro dei campi, è in grado di procurare all’amante un raffinamento interiore che si esplica nel chantar. Il lavoro e il profitto sono quindi intimamente legati alla poetica di Amore: non profitto terreno, ma superiore gloria costituita dalla bontà del canto.

Amore «marves plan’e daura» (X 5, «ratto Amore polisce e inaura») il chantar di Arnaut Daniel. In proposito mi sembra particolarmente interessante la serie di riferimenti alla doratura presente in altri trovatori. Marcabru è contro la «falsa razo daurada», perché essa si serve dei dadi piombati, dell’inganno:

 

Ah com es encabalada

la falsa razos daurada:

«Denan totas vai triada»!.

Va! ben es fols qui s’i fia;

de sos datz

c’a plombatz

vos gardatz,

qu’enganatz

n’a assatz

e mes en la via.

 

Ahi! che forte potentato

il falso argomento dorato:

«ed ognuno è spigolato!».

Ben è folle chi si fida;

dei suoi dadi

c’ha piombati

vi guardate,

ché ingannati

ne ha assai

e messi per via

 

Arnaut Daniel e Peire Vidal sono invece fautori della doratura delle parole. Peire Vidal dice in proposito nella canzone Tant me platz:

 

E sapchatz, s’ieu fos amatz,

que n’auziratz esmeratz

chantaretz prezatz,

qu’era que sui malmenatz,

fas meravilhatz

motz ab us sonetz dauratz,

e no m’en val amistatz

ni no chan mas de percatz.

 

E sappiate, se fossi stato amato

avreste udito smerigliate

canzoncine pregiate,

ma ora che sono melmenato

faccio meravigliate

parole con musichette dorate

e non mi vale più nulla amore

né più canto di profitto.

 

E poi nella tornada di Ges quar estius:

 

Senher N’Agout, no·us sai lauzar

mas de vos dauri mon chantar

 

Signor Agout non vi so lodare

se non dorando il mio cantare.

 

Come in Arnaut Daniel, quindi, la doratura caratterizza il trobar in accezione positiva. Arnaut Daniel e Peire Vidal sono trovatori che esaltano la «falsa razo daurada»: per loro l’imbroglio della falsa retorica è nascosto proprio nella retorica, che sfolgora di se stessa.

L’«officina» e la «taverna» sono i luoghi del poetare di Arnaut Daniel, fabbro e giocatore. Ma se le funzioni dei due simboli sembrano differenti, la materia è una: la poesia. Non è forse un caso se nel Polytecon sono messe sullo stesso piano la prova della fortuna, quella del flagello (la verga arnaldiana?) e quella del fuoco: la forza del virtuoso si avverte nell’avversa fortuna, il nitore dell’oro vero nel fuoco dell’artigiano:

 

Quod fornax auro, quod ferro lima, flagellum

messibus, est iustis asperitas onus.

Qui modo torquetur, nescit quam magna lucretur.

Alea fortune fortes examinat: aurum

in fornace, fides anxietate nitet.

 

Come la fornace all’oro, come la lima al ferro o il flagello

alle messi, così per i giusti le asperità sono un peso.

Chi da esse viene travolto, non sa quali grandi cose guadagna.

L’alea della fortuna mette alla prova i forti: l’oro

brilla nella fornace, la fede nell’angustia.

 

L’obrador e la taverna. Il primo è il luogo del «fare» artigiano, il secondo il luogo del tempo libero, del gioco. I due luoghi si oppongono: l’uno è il luogo del lavoro, l’altro il ricettacolo dei nullafacenti. Il poetare d’Arnaut Daniel è faber et ludens nello stesso tempo: il vers, il genere onnicomprensivo del primo trobadorismo, è il luogo in cui queste due qualità si manifestano, e l’officina e la taverna saranno quindi i due luoghi che metaforicamente rendono questa dualità del poetare.

Se vogliamo comprendere le ragioni del ludico, cioè le regole del gioco, non dobbiamo dimenticare che l’esigenza di dare ordine con un complesso di dettami e di “leggi” al sapere, ai sentimenti e quindi alla poesia era centrale nell’ideologia del periodo: si pensi per esempio alle regulae amoris nel De Amore di Andrea Cappellano. La regola è il gioco e il gioco è la regola: in ciò ritroviamo l’elemento di mediazione fra legge-società da un lato e [regola] cortese dall’altro.

In questa direzione sono da tener presenti le considerazioni di Jauss, secondo il quale per l’esperienza letteraria del Medio Evo «non è fondamentale il carattere di opera che il singolo testo possiede, ma l’intertestualità, nel senso che il lettore deve negare il carattere di opera del singolo testo per attingere fino in fondo il fascino di un gioco iniziato già prima, dalle regole conosciute e dalle sorprese ancora sconosciute».

Occorre rifarsi poi alla definizione di gioco data da Benveniste: «toute activité reglée qui a sa fin en elle-même e ne vise pas à une modification utile du réel». Benveniste mette anche in rilievo «le caractère formel et réglé du jeu, qui doit se dérouler dans des limites et conditions rigoureuses et constitue une totalité fermée». Il gioco sfugge ai limiti del reale poiché è in primo luogo «forma». Nello stesso tempo

 

Le jeu réalise par l’intermédiaire des participants une sorte de drame complet, de forme genéralement agonistique, consistant en une lutte pour la possession d’un objet, instrumen ou symbole de victoire. Il se joue dans un groupement fermé [...] dont il est la raison d’être et qui est entièrement voué à son accomplissement. Entre les membre de ce groupement, le lien du jeu peut être plus fort qu’une parenté de sang; il crée le sentiment très vif d’une communauté qui tire de lui sa mission, son honneur, ses symboles; les joueurs ont une personnalité du jeu, souvent un déguisement. Tout cela aide à definir le type de réalité où se meut le jeu: c’est une réalité mystique et qui emprunte au sacré quelques-uns de ses caractères le plus apparents.

 

Per Benveniste la passione del gioco ha qualcosa di mistico («la passion du jouer, qui le soustrai au monde réel, ressemble souvent à l’extase du fidèle quand il est au contact du sacré; c’est la même exaltation, la même pathetique, une frénesie…») Il gioco, quindi, si oppone al sacro, ma è a questo intimamente legato. Esso riporta il divino a livello umano e lo rende accessibile («Le jeu n’est donc au fond qu’une opération désacralisante»). Nello stesso tempo la poesia è assimilabile al gioco in quanto «agencement des formes arbitraires étroitement réglées». Per rendere il mondo «satisfaisant et intelligible» è sufficiente divenire ciò che il gioco esige si divenga, accettarne, insomma, le regole: il gioco, quindi, è in primo luogo comprensione coatta del mondo, e nello stesso tempo riduzione del mondo e del cosmo all’umano.

In un’aetas ovidiana il recupero dell’aspetto ludico non dovrà meravigliare. È stato notato che

 

Ovidio servendosi degli strumenti offertigli dalla sua educazione retorica e delineando situazioni più “comuni” e più “ripetibili” attenua l’autobiografismo e quindi la serietà e l’impegno morale, propri della poesia augustea dell’età precedente alla sua [...]; tale circostanza gli permette di distaccarsi dalla realtà politica e sociale che lo circonda e di avere una sua visione della vita, umana e mondana, aperta a tutte le esperienze e non astretta a fini tradizionali; siffatta visione, infine, trova il suo supporto nella poesia intesa come gioco, e quindi come trastullo capriccioso dell’animo (Scivoletto).

 

Ciò è, del resto, in linea con le lucide considerazioni di Dragonetti:

 

Non sarebbe giusto separare in modo troppo deciso il tono allegro di certe opere medievali da altre opere della stessa epoca, di uno stile più grave e più degno. Certo, non si tratta di cancellare le differenze, ma di sottolineare che il gioco è una delle dimensioni fondamentali della letteratura cortese. Essa è animata dall’XI secolo fino almeno al XIII dallo spirito di giullaria, di jonglerie, che fa della lingua poetica lo strumento magico di tutti gli specchi che riflettono la sua stessa favola. Lo sviluppo della lingua volgare, la cui pienezza si compie nell’elemento del ritmo e della musica, si accompagna così ad una sorta di ilarità dove il riso passa dallo scherzo alla buffoneria, alla risata beffarda o canzonatoria, senza che la lingua perda mai i suoi diritti alla sovranità del gioco e della gioia che procura.

 

Le istanze ludiche, sussunte dai registri goliardici latini, si integrano nel trobar in perfetta sintesi con gli altri elementi costitutivi, la Fin’Amors, la Dama, la Forma, divenendone elemento caratterizzante, un marchio, come la maestria artigianale del comporre. Quelle istanze comprendono più aspetti del poetare: riguardano il settore meno impegnato e più femminile del trovatorismo, impregnano le poesie burlesche e oscene, si incuneano a frau fra le vesti ricamate delle forme metriche e rimiche.

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Arnaut Daniel documentato

Arnaut Daniel documentato. Si addita un documento non noto in cui figura il nome Arnaut Daniel 

Nel quadro della filologia collaborativa che abbiamo inaugurato (vedi knol Canettieri, Gruber, Lazzerini e l’intervento di Distilo acquisito da Gruber), vorrei sottoporre a tutti i filologi knolisti un documento non noto ai provenzalisti (mi sembra), in cui compare un Arnaut Daniel.

Si tratta del Liber feodorum conservato nel tesoro del vescovado d’Angoulême 
 

un registre où sont transcrits, les uns avec date, les autres sans date, la plupart très sommairement, tous les actes et, selon notre langage actuel, tous les procès-verbaux d’hommages rendus à l’évêque d’Angoulême, leur suzerain, par ses vassaux et tenanciers, sous Guillaume IV de Blaye, de l’élection de ce prélat, en 1273, à sa mort, en 1307.

 
E’ stato digitalizzato in questo sito meritorio e utilissimo per i nostri studi:
 
Livre des fiefs [2] 
 
La menzione cui mi riferisco si trova alla p. 76:
 
Guillelmus Fabri de Podio Rabgos, parrochianus de Diraco fecit homagium ligium cum achaptamento quarumdam cirotecharum albarum dicto episcopo, pro omnibus hiis que idem Guillemus habet, vel habentur ab eo in vico et parrochia de Diraco, videlicet quoddam maynamentum situm in vico de Diraco, inter domos domini Petri de Condelone, presbyteri, ex una parte, et domos Heli Fabri ex altera, quod olim publice vocabatur La Forga ; item maynamentum et viridarium que sita sunt inter domum Helie Guarnerii, ex una parte, et domum Helie Bovis, ex altera, et vineas Sancti Marcialis ex altera ; item et quandam peciam terre, que modo est vinea, sita inter Planchamp ex una parte, et vineam albani Sancti Marcialis, ex altera, et terras ous Rambaus, ex altera ; item et quandam peciam terre sitam infra motas vici de Diraco, in dicto loco eu Vilar, subtus domum Helie Martini et fratris sui, inter terras Helie Danielis, ex una parte, et villare dicti domini P. de Con delone, ex altera ; item et quendam ortum situm et inclusum in dicto villari dicti presbyteri, inter ortos qui quondam fuerunt domini P. Guillelmi et a La Grougiera, ex una parte, et ortos, seu terram quod idem presbyter habuit ab Arn. et Petro Danielis, ex altera; et terram praenominatam de Villari. ex altera, et iter quod ducit de furno de Diraco versus fontem de Diraco, ex altera
 
Per ragioni cronologiche è improbabile, se non impossibile, che l’Arnaut Daniel a cui ci si riferisce sia il nostro trovatore, ma il documento del Liber feodorum ci fornisce comunque alcune indicazioni interessanti:
 
1. Daniel era una famiglia presente a Dirac, borgo non lontano da Ribérac (una cinquantina di chilometri):
 
 Vedi su Google Maps Dirac [3]
 
Questo dato ci permette di escludere che Arnaut Daniel sia un “doppio nome” (tipo Guillem Ademar, per intenderci).
 
2. Si tratta di una famiglia benestante: Helias possiede terras, Arnaut e Peire le hanno possedute. Questo dato confermerebbe la Vida: “fo gentils hom”.
 
3. Pur essendo molto diffuso, il nome Arnaut appartiene alla tradizione onomastica dei Daniel, cognomen questo in apparenza tutt’altro che diffuso in Occitania.
 
Questo dato ci permette di escludere che si tratti di un nome d’arte o di uno pseudonimo.
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Arnaut Daniel e il gioco dei dadi

Un nome e un cognome esagrafi: Arnaut Daniel; un nome, Arnaut, che oltre che ‘folle’, significava anche ‘biscaziere’, ‘giocatore’, ‘Débauché, coquin, homme sans aveu’[1] [4]. Questo trovatore non poteva essere indifferente al gioco dei dadi. Della sua natura (vera o solamente letteraria) ci dà conto un famoso scambio poetico di sirventesi, edito nel 1936 da Contini, in cui è messo in scena il cosiddetto «affaire Cornilh»[2] [5]: un «aneddoto, diciamo così, mondano»[3] [6], un gioco di varia oscenità, che ha ben offerto materia a varie polemiche filologiche, oltre che letterarie[4] [7]. Del senso parodico del testo ha dato conto Perugi, affermando: «non si tratta, in effetto, che di una sorprendente e godibilissima parodia del bacio inteso in senso feudale, quel bacio che valse a sugellare sotto gli occhi di Galerot il rapporto di fin’Amor che legava Lancillotto a Ginevra; quello stesso bacio cui anela ogni trovatore che si rispetti, come garanzia di un legame investito di un valore preciso nel codice ereditato dal diritto germanico di vassallaggio. Ma ora questo bacio, l’imprevedibile donna Ena non lo vuole sulla bocca: e la discussione che suscita questa richiesta clamorosa fa tanto rumore, appunto, perché contesta uno dei dettami più radicati nel codice feudale e amoroso del tempo»[5] [8]. In quell’occasione il non meglio identificato Raimon de Durfort alla fine di Ben es malastrucxchiamò in causa come messaggero presso Na Enan un certo Arnaut l’escolier: Na Enan aveva difatti richiesto a Bernart de Cornilh un’ardita prova d’amore, cui il cavaliere non aveva avuto il coraggio di sottoporsi. Raimon de Durfort, insieme all’amico Truc Malec, è dalla parte della donna e vuole che Ar­naut glielo vada a riferire.  Ad ascoltare Raimon de Durfort, questo Arnaut l’escolier sembrerebbe un giullare sfortunato e squattrinato, che per una buona ricompensa in denaro cercherà di far sì che il suo protettore abbia la priorità nella pro­dezza erotica con la donna di Bernart de Cornilh:

 

Pus etz malastrucz sobriers

non es Arnautz l’escoliers,

cui coffondon dat e tauliers

e vay coma penedensiers

paupres de draps e de deniers,

qu’yeu li donera grans loguiers

per so qu’yeu lay cornes primiers,

e cornera mielhs que porquiers

ni Porta-ioia l’escassiers.[6] [9]

 

Di Arnaut l’escolier Raimon de Durfort mette quindi in rilievo soprat­tutto la povertà e la propensione al gioco: nessuno sospetterebbe che dietro questo sembiante di giullare bohémien si celi nientedimeno che il «miglior fabbro del parlar materno», come ormai la critica sembra ammettere unanimemente. La solu­zione dell’enigma relativo alla «sestina» era quindi sotto gli occhi di tutti: proprio quella «confusione» prodotta dei dadi e del tavoliere ha generato una delle più belle e durature strutture formali della poesia occidentale. 

 

D’altronde il sospetto che questo Arnaut non sia Arnaut Daniel, ma un altro qualsiasi giullare, sebbene ormai dissolto dalla critica più recente, era stato avanzato dall’Appel che anzi ad Arnaut cercò «in ogni modo di ritorglierlo»[7] [10]: se non altro in ragione dell’autorità del filologo tedesco, varrà la pena ridiscutere e rianalizzare tutta la questione, che è peraltro troppo importante per la tesi qui proposta perché la si possa accantonare su fondamenti d’autorità[8] [11]. Si riportano quindi i testi in questione secondo l’edizione corrente, per ripercorrerne poi le vicende testuali e attributive[9] [12]:

 

I. Raimon de Durfort:

 

1. Truc Malec, a vos me tenh

2. de far na Enan captenh,

3. e pus yeu ab vos m’en emprenh,

4. ben ay en mi tot l’art e·l genh

5. e ia no vuelh qu’om m’o ensenh,

6. ans volgra fos en un compenh

7. selh que del cornar ac desdenh:

8. mal estara qui no·l destrenh

9. tan que cornes un’egua prenh.

 

10. Qu’ieu no·i conosc mot vilan,

11. qui que s’o tenha en van,

12. si en Bernartz tot en auran

13. venia·l ser o l’endeman

14. assalhir midons na Enan:

15. elha mes tras la cueyssa·l man

16. e·l mostret lo trauc sotiran

17. e dis: «S’ayssi·m cornatz de plan,

18. yeu vos faray mon drut certan.

 

19. S’ayssi no·m voletz servir,

20. estiers no me·n puesc partir:

21. cornatz lo corn, qu’ayssi lo·us vir,

22. qu’ieu l’ai fach lavar e forbir,

23. e ia no·l sentiretz pudir.

24. E ia no tematz escarnir:

25. ayssi es dreitz al mieu albir;

26. pus tan faitz qu’ieu lo vuelh sufrir,

27. faitz o tost si·n voletz iauzir».

 

28. Ben vos en seria pres,

29. senh’en Bernat de Cornes,

30. si al cornar vos eratz mes

31. mentre que·l corns er’endefes,

32. que paor ai qu’autre y ades,

33. e pus que lo corns sera pres,

34. adoncx no y cornaretz vos ges.

35. «Dona, que·l cornars fora·m bes,

36. mas al reduyre·m falh l’ales».

 

37. Senher, pus de Cornilh etz

38. e say que cornar soletz,

39. cornatz lo corn, qu’ayssi vezetz

40. que d’aquest auretz mais de pretz

41. que si cornavatz d’autres detz;

42. segon que servizi·n prendetz,

43. ia dan no·us i tenha devetz,

44. o si que non auretz

45. de mi aisso que me queretz.»

 

46. Fals dompnejador, aprendetz

47. de mi aisso que no sabetz:

48. per fals vos tenc quar enqueretz

49. domna, pueys vos y sordeietz.[10] [13]

 

 

 

II. Truc Malec:

 

1. En Raimon, be·us tenc a grat

2. quar ayssi·us vei acordat

3. de gen captener en Bernat

4. selha que no respos en fat

5. al malastruc Caersinat,

6. que·l mostret son corn en privat:

7. selh lo soanet per foldat,

8. e yeu lay volgr’aver cornat

9. alegramen, ses cor irat. [11] [14]

 

 

III. Raimon de Durfort:

 

1. Ben es malastrucx dolens

2. lo Caersis a sos grens,

3. quan soanet aitals presens;

4. ben par que·l cosselhet sirvens:

5. ia elh non sia mos parens,

6. que s’elha me·n mostres dos cens,

7. yeu los cornera totz iausens,

8. e pueys fora ricx e manens,

9. neis ei refermera las dens.

 

10. Non es bona dompn’el mon

11. si·m mostrava·l corn e·l con

12. tot atretal ilh se son,

13. e pueys m’apellava «·n Raimon,

14. cornatz m’ayssi sobre·l reon»,

15. qu’ieu no·i baysses la car’e·l fron

16. com si volgues beure en fon:

17. drutz qu’a sa dompn’ayssi respon,

18. ben tanh que de son cor l’aon.

 

19. Caersinat tracher sers,

20. tu que d’aquest plag mal mers,

21. gartz, perque no·i tornas enquers

22. cornar a dreg o a envers?

23. que·l corns es ben lavatz e ters:

24. yeu en cornera cen milhers,

25. e si n’i a assatz de fers;

26. si fossetz pendutz a Bezers,

27. no feir’om tan chansos ni vers.

 

28. Pus etz malastrucx sobriers

29. non es Arnautz l’escoliers,

30. cui coffondon dat e tauliers

31. e vay coma penedensiers

32. paubre de draps e de deniers,

33. qu’yeu li donera grans loguiers

34. per so qu’yeu lay cornes primiers,

35. e cornera mielhs que porquiers

36. ni Porta-ioia l’escassiers.

 

37. Arnaut escolier, vay mi

38. ancanog o al mati

39. a na Enan, e digas li

40. que Raimons de Durfort li di

41. que ben es pres del Caersi

42. quan li mostret son raboi,

43. mas grieu li responder’ayssi,

44. ans cornera ses tai

45. plus fresc que sirvens apezi.

 

46. Bernat de Cornilh, ye·us desfi,

47. que aguetz del cornar fasti;

48. per mon Truc Malec, n’Audoi,

49. te puesc desfiar e per mi.[12] [15]

 

 

IV. Arnaut Daniel:

 

1. Pus Raimons e Truc Malecx 

2. chapten n’Enan e sos decx, 

3. e ieu serai vielhs e senecx 

4. ans que m’acort en aitals precx 

5. don puesca venir tan grans pecx: 

6. al cornar l’agra mestiers becx 

7. ab que traisses del corn los grecx; 

8. e pueis pogra leu venir secx 

9. que·l fums es fortz qu’ieis d’inz dels plecx. 

 

10. Ben l’agr’ops que fos becutz 

11. e·l becx fos loncx e agutz, 

12. que·l corns es fers, laitz e pelutz 

13. e prions dinz en la palutz, 

14. e anc nul jorn no estai essutz, 

15. per que rellent en sus lo glutz 

16. c’ades per si cor ne redutz: 

17. e no taing que mais sia drutz 

18. cel que sa boc’al corn condutz. 

 

19. Pro·i agra d’azaus assais, 

20. de plus bels que valgron mais; 

21. e si en Bernatz s’en estrais, 

22. per Crist, anc no·i fes que savais, 

23. car l’en pres paors et esglais: 

24. que si·l vengues d’amon lo rais, 

25. si l’escaldera·l col e·l cais; 

26. e no·s cove que dona bais 

27. aquel que cornes corn putnais. 

 

28. Bernatz, ges eu no m’acort 

29. al dig Raimon de Durfort 

30. qe vos anc mais n’aguessetz tort, 

31. que si cornavatz per deport 

32. ben trobavatz fort contrafort, 

33. e la pudors agra·us tost mort, 

34. que peitz ol no fa fems en ort: 

35. e vos, qui que·us en desconort, 

36. laudatz en Dieu que·us n’a estort! 

 

37. Ben es estortz de perilh 

38. que retrag for’a son filh 

39. e a totz aicels de Cornilh; 

40. mielz li vengra fos en eisilh 

41. que la cornes el enfonilh 

42. entre l’esquin e·l penchenilh 

43. per on se legon li rovilh; 

44. ja no saubra tant de gandilh 

45. no·l compisses lo groing e·l cilh. 

 

46. Bernatz de Cornes no s’estrilh 

47. al corn cornar ses gran dozilh 

48. ab que·l trauc tap el penchenilh: 

49. pueis poira cornar ses perilh. 

 

La ripartizione del testo fornito da Contini si basa su una congettura di Kolsen, che per primo aveva ritenuto opportuno isolare la cobla che comincia En Raimon, be·us tenc a grat rispetto al gruppo di Ben es malastrucx dolens; nei codici, invece, non è presente alcuna suddivisione e l’intero componimento è attribuito ad un solo trovatore: Trucs Malecs (con varianti grafiche) in ADHIK; Raimons de Durfort in R, Guilhem de Durfort in C. La ripartizione del testo proposta da Kolsen ha fondamenti più che giustificati, benché non sia l’unica proponibile ed abbia lo svantaggio (proprio di ogni congettura in absentia) di non aver alcun supporto nella tradizione manocritta: lo scorporo della cobla attribuita a Truc Malec rispetto al sirventes di Raimon de Durfort non ha infatti alcun sostegno materiale all’interno dei codici, ma si fonda su una serie di considerazioni di ordine logico, fondate sostanzialmente sull’incongruenza dell’attribuzione dei manoscritti rispetto ad alcuni dati presenti invece nel testo. Detto ciò, si ripropone la domanda del Contini: «Qual è l’ordine di tali componimenti?». Anticipando che la situazione complessiva è molto complicata e che probabilmente non è possibile raggiungere una certezza in materia, è sembrato necessario esporre almeno i materiali e fare il punto sulla questione relativa alla disposizione dei testi nei codici e alle attribuzioni. Poiché tutto ciò non è patente nel saggio di Contini, per tentare almeno di focalizzare con precisione il problema, ho elaborato una tabella in cui viene indicata la posizione dei testi nei codici, unitamente alle varie attribuzioni. I codici latori sono raggrupati secondo la parentela stemmatica; 1 indica il sirventese Truc Malec, a vos me tenh; 2 la serie En Raimon, be·us tenc a grat + Ben es malastrucx dolens; 3 Pus Raimons e Truc Malecx. Nella tabella si indica il numero della carta; nel caso in cui un componimento sia contiguo ad un altro dello stesso ciclo si indica la posizione relativa in esponenente; infine si indica l’attribuzione fornita dal codice (Rm Durf = Raimon de Durfort; Truc Mal = Truc Malec; Arn Dan = Arnaut Daniel; Arn Mar = Arnaut de Maruelh; Gr Born = Giraut de Borneh).

 

1 2 3

A 2121 Rm Durf 2122 Truc Mal 205 Gr Born

H 411 Rm Durf 412 Truc Mal 413 Arn Dan

D 1381 Rm Durf 1382 Truc Mal 1383 Arn Dan

I 1861 Rm Durf 1862 Truc Mal 1863 Arn Dan

K 1721 Rm Durf 1722 Truc Mal 1723 Arn Dan

C 375 N’Audoi 379 Guilhem de Durfort 115 Arn Mar

R 27 2331 N’Audoi 28 2342 Rm Durf 82 Arn Mar

 

Dalla tabella risulta evidente che DIKH  sono unanimi sia nelle attribuzioni che nella disposizione dei testi. Essi raggruppano nell’ordine 1+2+3 all’interno della sezione dedicata ai sirventesi e attribuiscono 1 a Raimon de Durfort, 2 a Truc Malec e 3 ad Arnaut Daniel. La serie 1+2 è confermata da A, che coincide per questi due testi con l’attribuzione di DIKH e da R, che invece porta un’attribuzione differente (1 a N’Audoi e 2 a Raimon de Durfort). Sia A che R portano però un’attribuzione per 3 differente da quella di DIKH: R coicide con C nel dare il testo ad Arnaut de Maruelh e A reca un’attribuzione isolata a Giraut de Bornelh. C si mostra il più isolato sia nella distribuzione dei testi, che sono tutti dispersi, sia nelle attribuzioni (coincide solo con Rnell’attribuire 3 ad Arnaut de Maruelh). Dai dati esposti si ricava innanzitutto che l’ordine 1+2 è confermato, oltre che dalla sequenza logica, anche dalla tradizione manoscritta: tutti i codici tranne C mostrano tale sequenza, pur appartenendo a rami differenti dello stemma[13] [16]. La sequenza 1+2+3, invece, è la sola ammessa nei quattro canzonieri in cui tutti i testi si mostrano  contigui, cioè DKIH. Secondo Contini «Il primo serventese (I) è certamente Truc Malec, a vos me tenh […], che i manoscritti, tranne CR, dànno concordemente a Ra(i)mon de Durfort; ma è chiaro che l’inizio di questo componimento non può non alludere a una precedente prova poetica di Truc Malec, non giunta fino a noi»[14] [17]. Su questa base interpretativa Bec poteva affermare che «l’affaire dut connaître en son temps une certaine célébrité et inspirer vraisemblablement plus de poèmes que ceux que nous avons conservés»: così, fornendo i testi «dans l’ordre vraisemblable de leur composition», poneva in prima posizione la cobla attribuita da Kolsen a Truc Malec, cui faceva seguire Truc Malec a vos me tenh (nostro 1), e poi il sirventes di Arnaut (nostro 3), e infine la parte di 2 avanzata allo scorporo del Kolsen, Ben es malastrucs dolens[15] [18]. Il risultato, è evidente, è una serie di testi che non ha alcun appiglio nella tradizione manoscritta e che manca di logica interna[16] [19]. In verità, c’è da dire che Truc Malec, a vos me tenh (1) non necessita di alcun testo precedente: in esso infatti è descritta nel dettaglio la situazione di partenza; è cioè raccontata precisamente la storia del rapporto fra Na Enan e Bernart de Cornilh. L’intero componimento, secondo la tecnica retorica dell’ordo artificialis, è strutturato come un racconto che Raimon de Durfort fa a Truc Malec. In esso sono descritte dettagliatamente tutte le vicende dell’affaire: non ce ne sarebbe stato alcun bisogno se la storia fosse stata già nota al pubblico. Al contrario, la dovizia di particolari nella narrazione e la mancanza di elementi allusivi a qualcosa di già noto sono dati da cui si può inferire che il testo posto in prima posizione dai codici doveva essere anche il testo di avvio dello scambio. Sulla stessa linea interpretativa, sembra molto verosimile che ad esso segua 2, sia esso da scindere in due composizioni o meno. Che poi il sirventes attribuito ad Arnaut vada considerato l’ultimo della serie, è ipotesi avvalorata dal fatto che nelle ultime due coblas di 2 viene chiamato in causa proprio Arnaut l’escolier. Contini, con Kolsen, riteneva che i vv. 13 e 40 e 48 di Ben es malastrucx dolens (corrisponenti ai vv. 22, 49 e 57 del componimento non «scorporato» della prima cobla)

 

provano di essere stati scritti da Raimon, sodale di Truc Malec, ma con ciò non è ancora data ragione a CR perché il sirventese quale sta nei manoscritti ha una strofe di troppo rispetto a 397,1 [cioè il nostro 1] e 29,15 [nostro 3], e dunque deve constare della fusione, già avvenuta nell’archetipo, d’un componimento di Truc Malec (la prima strofe: II) e d’uno di Raimon (le altre strofi: III), posteriore quest’ultimo a 29, 15, poiché v’è attaccato anche Arnaut. L’attribuzione dei manoscritti poziori vale dunque per la prima strofe, per il complesso della pièce quella di CR, che “normalizzano” razionalisticamente il primo verso come avevan fatto dell’attribuzione di 397,1.

 

Sul piano testuale c’è da notare che 2 in CR comincia con un vocativo a Trucs Malecs e ciò sarebbe dovuto, secondo Kolsen e Contini, all’intento di rendere il testo coerente con l’attribuzione a Raimon de Durfort. La sequenza testuale di CR e l’attribuzione di 1 a N’Audoi e di 2 a Raimon de Durfort sono quindi negate da Kolsen e da Contini per una ragione di ordine formale, cioè la presenza nel testo tràdito dai manoscritti di una strofe in più rispetto agli altri due sirventes. Per il resto i due rami della tradizione sembrano internamente coerenti: per il ramo e [epsilon] varranno infatti le considerazioni di Kolsen e di Contini, mentre per il ramo yavremmo 1 attribuito a N’Audoi e 2 a Raimon de Durfort: nel primo componimento N’Audoi farebbe quindi riferimento all’opinione del fantomatico Truc Malec e nel secondo Raimon de Durfort ne riprenderebbe le tesi, supportandole con nuovi argomenti. Si hanno però due elementi di discrepanza interna: 1) il verbo del v. 2 di 2 suppone un accordo fra le posizioni di Truc Malec e quelle  di Raimon de Durfort di cui non è dato conto nel testo precedente, poiché in esso  è N’Audoi che parla; 2) nella tornada di 2 viene chiamato in causa N’Audoi che può essere identificato a) con Truc Malec (per apposizione); b) con Bernat de Cornilh, con ripresa del concetto espresso nei due versi precedenti; c) con Arnaut Daniel, la cui posizione rispetto a Raimon de Durfort e a Truc Malec giustificherebbe il verbo desfiar; d) con un altro personaggio[17] [20]. Nei primi tre casi l’identificazione pone problemi se messa in rapporto con l’attribuzione di 1 in CR: infatti non è possibile che in 1 parli Bernat de Cornilh, perché è di questi che si discute; non è possibile che parli Arnaut Daniel, la cui posizione è concorde con quella di Bernat in 3; infine non è possibile che parli Truc Malec, poiché nell’incipitdel componimento («Truc Malec, a vos mi tenh») ci si riferisce, sia pur concordando, ad una posizione espressa proprio da questo misterioso personaggio e ciò dovrebbe far supporre che Audoi-Truc Malec concorda con se stesso. Resterebbe quindi solo la quarta possibilità, ma anche in questo caso non sarebbe chiaro perché Raimon de Durfort dovrebbe desfiar N’Audoi in 2, visto che si mostrerebbe concorde con le sue posizioni in 1.

Ci si domanderà: le ragioni formali addotte da Kolsen e da Contini e queste formulata per ultima  sono sufficienti per escludere la bontà della testimonianza di CR o si potranno ammettere entrambe le soluzioni? Quella prospettata da Kolsen e Contini comporta l’accorpamento in archetipo di due testi differenti e il conseguente annullamento di un’attribuzione del testo originale; quella di CR presuppone una difformità metrico-formale del testo tràdito dai manoscritti rispetto agli altri due cui tale testo è legato, la supposizione di un testo perduto intermedio fra 1 e 2 e una differente attribuzione per 1. La difformità formale potrebbe essere spiegata sia con la necessità di fornire un supplemento di informazioni (si ricordi che l’ultima cobla è proprio quella in cui viene chiamato in causa Arnaut), sia con caratteristiche simil-tornada dell’ultima strofe, contenente l’invio del giullare alla donna. Viceversa, l’accorpamento di cobla e sirventes non ha nessuna ragione strutturale evidente, anche se a suo favore si potrebbero richiamare altri casi analoghi. Se a ciò si aggiunge l’anomalia della presenza di una cobla esparsa nell’ambito di uno scambio di sirventes, l’ipotesi di una parità fra le due ipotesi non sarebbe da scartare: la normalizzazione a sei strofe dei tre testi comporta l’inserimento di un elemento totalmente difforme dagli altri (ben più evidente della differenza 7 vs 6 che bisognerebbe ammettere accettando la versione di CR), a meno di non considerare anche questo testo come mutilo e in tal caso si dovranno supporre ben 3 passaggi corruttivi: 1) la perdita di cinque strofe; 2) la perdita di un’attribuzione; 3) l’accorpamento del testo mutilato con quello normale. Ci si può chiedere se sia economico dover far ricorso alla supposizione di tale macrointervento per dar ragione di una difformità strutturale non considerabile con certezza come corruttela. Si consideri inoltre che in CR sia 1 sia 2cominciano invocando Truc Malec, che viene quindi ad essere un senhal reciproco. Se si tiene in conto il fatto che CR costituiscono uno dei due rami dello stemma, si comprenderà come la soluzione Kolsen-Contini, fondata sostanzialmente sulla supposta bontà dell’altro ramo, sia quanto meno da valutare con maggior problematicità: l’altro ramo, come si è visto, ha il vantaggio fondamentale della compattezza testuale e della seriazione univoca dei testi, mentre CR mostrano dispersione. Ma l’assunto continiano potrebbe essere ribaltato: l’accorpamento dei testi, dovuto probabilmente alla riunione di essi nella sezione dei sirventes, potrebbe aver provocato una ridiscussione delle attribuzioni sulla base del componimento attribuito ad Arnaut Daniel: poiché questo cominciava invocando Raimons e Truc Malecx, gli esemplatori potrebbero aver creato la serie precedente, forzando l’attribuzione sia di 1 che di 2 al fine di far coincidere l’autore di 1 con il primo personaggio nominato nell’incipit del testo di Arnaut, e l’autore di 2 con il secondo. D’altronde abbiamo visto che l’ordine 1+2 non è messo in discussione neanche dall’altro ramo. L’ipotesi Kolsen-Contini e quella or ora enunciata sembrerebbero quindi essere equipollenti dal punto di vista strutturale, anche se oggettivamente la prima ha il vantaggio di una maggior coerenza interna: comunque non c’è modo per dirimere la questione in modo definitivo. La rivalutazione (sia pur parziale) del ramo CR pone evidentemente l’accento sul secondo aspetto interessante della questione, quello da cui si è partiti e a cui si deve ritornare: l’attribuzione di Pus Raimons e Truc Malecx. Si è visto infatti che il ramo CR dà il sirventes ad Arnaut de Maruelh e si oppone  con ciò all’attribuzione del ramo DIKH. Innnazitutto noteremo che la coincidenza sul nome di Arnaut dei due rami è elemento sufficiente per porre notevolmente in subordine l’attribuzione del solo A a Giraut de Bornelh, e ad avvalorare quindi l’ipotesi che effettivamente l’Arnaut nominato nell’altro sirventes sia anche l’autore di Pus Raimons e Truc Malecx. Le ipotesi concorrenti sono quindi due: o l’autore del sirventes è il «miglior fabbro», o è il «men famoso Arnaldo». Credo che la considerazione fatta in tal senso da Eusebi[18] [21], secondo cui Arnaut de Maruelh, al contrario di Arnaut Daniel, «non fu mai rimatore aspro e violento», sia dirimente, se a sostegno si aggiunge la mole delle coincidenze fra le rime del sirventes e quelle del restante canzoniere danielino, confrontata con l’esiguità dei riscontri maruelliani: delle cinque rime di Pus Ramons e Truc Malecx, infatti, tre trovano riscontro in altre canzoni di Arnaut Daniel ma sono assenti nell’opera di Arnaut de Maruelh; per una solamente (e poco caratterizzata) si dà la situazione inversa[19] [22]: l’attribuzione di CR ad Arnaut de Maruelh si può quindi ritenere molto dubbia sulla base di una perizia stilistica, anche se, in assoluto, non si può escludere. A ciò si aggiunga che l’argomento dello scambio di sirventesi non rientra in alcun modo nella gamma tematica offerta dalla produzione del «men famoso Araldo», che al contrario è autore legato ai canoni più rigorosi della fin’amor, mentre si addice molto di più all’aspra sensualità di Arnaut Daniel. Ugualmente, la caratterizzazione del giullare inviato a Madonna Enan come escolier sembrerebbe caratterizzare molto meglio 

Circa le attribuzioni degli altri testi si noterà come tutti i personaggi chiamati in causa abbiano nomi evocativi e «parlanti»[20] [23]. Relativamente a Truc Malec,  è ormai assodato che la prima parte del nome vada vada connessa con il termine occitanico omonimo, deverbale da *trudicare, anche se resta ancora poco determinato il senso da attribuirgli[21] [24]: si può riconnetterlo con il significato osceno che esso assume probabilmente nel passo di Gavaudan: «No vol castel, ciutat, ni borc, / Aquest joys, ni·l truc na Borga»[22] [25], ma è anche possibile che assuma il significato di ‘trucco, imbroglio’, attestato ad esempio in Sordello: «qe fols plus caus d’un sanbuc / sai qe n’a penedensa, / qan veires al primer uc / trapenar sa valensa/ del faduc,/ qi mal sembla del Bauz n’Uc, e ses truc val mens q’om mortz en taüc»[23] [26]. La seconda parte del nome, Malec, va molto probabilmente interpretata come allusivo al personaggio biblico Melech, di cui si parla nel salmo 52; infatti «dal VI secolo divenne sempre più naturale indicare con una delle svariate traslitterazioni del nome ebraico Mahalat la persona immorale sprezzante degli insegnamenti divini» e «si fissò quasi nella tradizione il connettere all’azione del leccare l’attaccamento alle cose terrene»[24] [27]. Il personaggio di Melech, come mostrato da F. Latella, è stato visto in moltissime glosse latine come colui che era disposto a leccare ogni cosa, il sangue, la terra, etc. Ciò è dovuto, credo, all’interpretazione paraetimologica del nome sulla base dei termini facenti capo alla famiglia lessicale del ‘leccare’ derivata dal germanico lekkon, presto passato tramite i Longobardi anche in latino (con lecator)[25] [28]. È quindi molto verosimile che anche il nome del personaggio dell’«affaire Cornilh» sia stato costruito senza prescindere dal ‘lecar’ occitanico. Sul nome del leccone ha sicuramente influito anche l’Artimalec nominato da Marcabru in Seigner n’Audric:

 

De lenguejar

Contra joglar

Etz plus afilatz que milans;

Del vostre bec

N’Artimalec,

No·is jauzira ja crestians[26] [29].

 

Ha notato giustamente la Spaggiari che in questo e in altri testi in cui compare Artimalec il motivo del bec«comunque inteso, ha un ruolo fisso»[27] [30]. La constatazione, evidentemente, collega ancor di più il personaggio con il leccare. Alla formazione del nome ha inoltre probabilmente influito anche la serie di significati legata al suffisso onomastico biblico –melec, unitamente forse al senso peggiorativo derivante da mal– ‘male’. Detto ciò, credo che il nucleo fondamentale della genesi del nome sia da ricercare nell’aggettivo malastruc, utilizzato più volte nel ciclo per caratterizzare di volta in volta Bernart de Cornilh o  Arnaut l’escolier. Si tratta di un termine di grande importanza per la nostra tesi, e infatti all’ambito semantico della Fortuna e degli astri cui esso è collegato si è dedicata una parte del capitolo 9. Qui si noterà solamente che se si scompone malas-truc e si ricompone in ordine inverso si ottiene una serie fonica di pochissimo dissimile a quella del nome del personaggio Truc Malecs. Sulla ricomposizione malas > malec potrebbe aver influito la produttività dei nomi composti con –malec, dal timbro esotico. Con ciò l’ambito semantico del nome si arricchisce di un elemento: Truc Malec sarà lo sfortunato, il leccone, l’imbroglione. Truc Malec, un nome parlante: mai si troverà un documento che attesti l’esistenza di questo personaggio come nome proprio. Ma nella vita letteraria c’è sì un Malastruc di grande autorevolezza, un poeta che ha sbandierato la propria sfortuna, facendosene quasi un vanto, poiché di ogni disgrazia poteva farsi vanto: Raimbaut d’Aurenga. Si riporterà per intero questa strabiliante poesia nel capitolo 9, in cui si tratterà in modo specifico l’argomento della Fortuna amorosa. Qui bastino i primi due versi: «Ar non sui jes mals et astrucs, / anz sui ben malastrucs de dreg». In questo vers il termine malastruc e affini torna ossessivamente: tanto che facilmente la dichiarazione di Raimbaut d’Aurenga di essere Malastruc sarebbe potuta essere trasformata in senhal. Si ricorderà a tal proposito che delle molte le possibilità offerte dalla varia lectio per il nome della dama dell’«affaire Cornilh» (naenan, naena, naiman, nainan, naia, per non tener in conto le varianti grafiche), quello di N’Ayma ha avuto particolare fortuna per essere coincidente con il nome della dama nominata nel no-say-que-s’es di Raimbaut d’Aurenga: ciò infatti permetteva a Canello[28] [31] e ad altri dopo di lui di attribuire al sirventes danielino una datazione anteriore alla morte del conte d’Orange e di avvalorare quindi il fatto che esso fosse un’opera di gioventù[29] [32]. Si noterà che fra la storia di donna Aima che «estujet lai on li plac» la spada, e le vicende di donna Enan sussistono differenze notevoli, non assimilabili se non sotto il segno dello scatologico (peraltro solo supposto nel primo caso), ma l’analogia non andrà trascurata. In fondo il personaggio di Truc Malec, che difende la dama, potrebbe ben essere quello, già letterarizzato, di Raimbaut d’Aurenga, che aveva audacemente assimilato la propria dama alla licenziosa N’Aima. Nessun Truc Malec sarebbe esistito, in tal caso: questo personaggio non sarebbe altri che Raimbaut d’Aurenga, che nel suo no-say-que-s’es aveva preso le difese di N’Ayma. La storia del sirventes prenderebbe le mosse da qui, per svilupparsi in un crescendo di oscenità, ben oltre le possibilità offerte dal testo rambaldiano. 

Truc Malec. Un nome nel quale è operata nello stesso tempo una scissione e una ricomposizione. Ma allora non potremo ragionare in questi termini anche su gli altri nomi? Il nome Durfort è ben attestato nella tradizione trobadorica: abbiamo infatti versi di Bernart e di Guilhem de Durfort: Bernart è documentato dal 1187 al 1246, fu signore di Brassac (cant. di Bourg-de-Visa, arr. di Moissac, Tarn-et-Garonne), castello che apparteneva a Raimondo V di Tolosa e che Bernart de Durfort vendette al re d’Inghilterra per 300 marchi: si noti che Brassac si trova in Quercy e che quindi Bernart è senz’altro della stessa regione di Raimon. Guilhem de Durfort, invece, appare attestato dal 1192 al 1204 in alcuni atti riferibili ai re d’Aragona ed è probabilmente lo stesso che, nella tornada di una sua poesia, Peire Vidal raccomanda a Pietro II d’Aragona perché questi lo accolga «entre·ls […] ondratz baros»[30] [33]. Da notare che Guillem de Durfort è scambiato in C (e nel Libro di Michele[31] [34]) con Raimon de Durfort nell’attribuzione dei sirventesi.

Fermo restando la possibilità dell’esistenza di un personaggio (in apparenza però non documentato) dal nome di Raimon de Durfort, non si potrà proporre, anche in questo caso un’interpretatio nominis? Non si potrà cioè pensare che egli sia entrato nell’affaire proprio in quanto aveva questo nome? Dovremo allora sciogliere dur-fort? Il gioco su questo nome ricorderebbe ad esempio quello fatto nel Fiore, in cui Amico dice a Durante:

 

E quando tu·ssarai co·llei soletto,

Prendila tra·lle braccia e fa ‘l sicuro,

Mostrando allor se·ttu·sse’ forte e duro,

E ‘mantenente le metti il gambetto.[32] [35]

 

O quello del giocoso Mino da Colle, che sul finire del XIII secolo così scherzava su Durazzo:

 

A buona se’ condotto, ser Chiavello,

se tu favelli a posta di Durazzo;

ma far lo ti conviene, ché chiav’ello

porta d’ogn’om, che di sé no è durazzo.

D’este parole eo so ch’io t’acchiavello;

risponda lo tuo senno non durazzo,

ché altrettanto, n’accerto chiavello,

non razzerà lo tuo caval du’ razzo.[33] [36]

 

Quanto a Bernat de Cornilh, già nel primo sirventes della serie è detto chiaramente che sulla base dell’interpretatio del suo nome donna Enan ha costruito tutta la faccenda: «Senher, pus de Cornilh etz / e sai que cornar soletz, / cornatz lo corn». Ma, ci si chiede, sarà il nome di un cavaliere reale o immaginario: sarà Cornilh, che ha provocato il cornar o il cornar che ha indotto il nome del cavaliere? Sia Cornilh che Durfort non sono luoghi immaginari: sono località realmente esistenti nel Quercy, e non sono lontane dal Périgord, la zona di provenienza di Arnaut Daniel. Possiamo ben imaginare quali giochi e facezie suggerissero quelle località dal nome tanto allusivo. Durfort, Truc Malec, Cornilh: tutti nomi «parlanti». Lo stesso Arnaut, lo abbiamo visto, ha un nome che «fa parentado» con il vero: ma è pur sempre l’unico autore dell’«affaire Cornilh» di cui possiamo con certezza affermare l’esistenza, di cui si abbiano molti altri testi, che sia, insomma, un trovatore riconosciuto. Degli altri non sappiamo nulla, le loro prove poetiche possono limitarsi ai soli serventesi dell’«affaire», i loro nomi sono tutti così legati all’ambito dell’osceno. Tanto che, forse, non sarà azzardato proporre come ipotesi di lavoro che l’unico autore di cui si possa accertare l’esistenza sia l’artefice, l’inventore e l’autore di tutta la storia: abbiamo visto come l’ambiente legato alla scuola e alle Università non disdegnasse i giochi sulla donna, la taverna e il dado. Sulla base allusiva delle più basse istanze goliardiche è costruita anche la parodia di Raimon de Durfort: si ricordi che Arnaut Daniel è escolier e ioglar e che «amparet ben letras»[34] [37]: un rinvio certo dunque alla tradizione ludica dei letratz che si fanno giullari e poi muoiono in povertà (e non è certo un caso se il motivo della povertà sarà centrale  nella poetica autoironica dei goliardi, e dei giocosi fino a Cecco Angiolieri e oltre). Come si può ben intendere, il sostrato culturale dei vagantes, le istanze di cui essi si facevano portatori, non dovevano essere troppo dissimili da quelli di un trovatore come Arnaut Daniel. È a Gianfranco Contini che si deve l’intuizione a mio avviso più lucida in tal senso:

 

E se l’«Arnaut escolier» di Raimon de Durfort, «que vay coma penedensiers, / paubres de draps e de deniers», fosse incontestabilmente il Daniel, quale soddisfazione ritrovare in lui addirittura un collega di Piero, anzi un chierico vagante di abitudini e di sapienza goliardiche! Questo fremente artefice sarebbe dunque stato un Primate in lingua volgare, un Villon del Millecento?[35] [38]

 

Il sirventese di Arnaut Daniel si lega dunque tematicamente e stilisticamente a quella tradizione letteraria di poesia giocosa, viva in tutta la Romània e, se pur più sporadicamente e isolatamente, rappresentata anche in Provenza da alcuni testi vari esponenti del filone realistico.

Del resto, la propensione al gioco dei dadi e la conseguente indigenza di chi lo praticava doveva essere abbastanza comune presso i trovatori e i giullari. La vida di Gaucelm Faidit ci informa del fatto che questo trovatore era stato ridotto in povertà per il gioco dei dadi, associando a tale vizio anche il peccato di gola, la prodigalità e una sostanziale sfortuna (desastrucs) sociale.

 

Gauselms Faiditz si fo d’un borc que a nom Userca, que es el vesquat de Lemozi, e fo filz d’un borges. E cantava peiz d’ome del mon; e fetz molt bos sos e bos motz. E fetz se joglar per ocaizon qu’el perdet a joc de datz tot son aver. Hom fo que ac gran largueza; e fo molt glotz de manjar e de beure; per so venc gros oltra mesura. Molt fo longa sazo desastrucs de dos e d’onor a prendre, que plus de vint ans anet a pe per lo mon, qu’el ni sas cansos no eran grazidas ni volgudas.[36] [39]

 

 

E quello del giullare sfortunato, povero e malvestito doveva essere una figura comune nel periodo, soggiacente a lazzi e scherzi di ogni genere. Si ricordi, ad esempio, Mailolin, il giullare malastruc fatto oggetto di scherno da Bertran de Born in un suo sirventes [37] [40]. In modo ancor più vicino alla figura di Arnaut, così come rappresentata nel sirventes, si ricorderà la descrizione del giullare di Sens, nel fabliau di Saint Pierre et li jongleur:

 

Il ot un jugleor à Sens,

qui mout ert de povre riviere,

n’avoit pas sovent robe entiere.

Sovent estoit sanz sa viele

et sanz sorcot e sanz cotele

si que au vent et a la bise

estoit sovent en sa chemise.

Ne cuidiez pas que je vos mente:

n’avoit pas sovent chausemente,

et quant a la foiz avenoit

que il uns solleres avoit

pertuisiez e deferretez

mout i ert grande la fiertez:

ses chauses avoit forment chieres.

De son cors naissient les lanieres,

et mout ert povres ses ators.

En la taverne ert son retors

et de la taverne au bordel

a ces deus portoit le cenbel.

les dez et la taverne amoit

tout son gaaing i despendoit.[38] [41]

 

Si sa che il rapporto fra scuola e giulleria è di tipo osmotico. Che era estremamente facile incontrare nelle taverne dell’epoca l’escolier e il joglar l’uno accanto all’altro davanti al boccale di vino. Arnaut Daniel, come si è visto, era l’uno e l’altro. Alla raffinata cultura scolastica nutrita di Ovidio e Virgilio, alternava la cultura della taverna, così bene rappresentata dai goliardi: una cultura in cui l’anelito cortese al bacio della dama, si capovolgeva nell’oscena  richiesta di donna Enan e in cui ai trovatori venivano attribuiti nomignoli evocanti allusioni scabrosi. Arnaut Daniel era quindi un giocatore, o almeno come tale voleva essere ritenuto a giudicare dalla sua opera: i dadi sono per lui elemento di confusione, di straniamento interiore ed esteriore. Arnaut Daniel, del resto, è un giocatore nello scherzo di Raimon de Durfort come nella poesia, nel suo soverchiante far «versi d’amore». Al gioco dei dadi e ai suoi inganni egli fa spesso riferi­mento nelle sue canzoni, unitamente a varie, sia pur laconiche, riflessioni sul destino e sull’amore. In Lancan son passat li giure la metafora dei dadi è utilizzata per indicare il potere ingannatore di fals’Amor, che rende ubriaco anche chi non ha bevuto, che sussurra all’orecchio qualcosa cui l’animo semplice del fin’aman crede con devota fede. Ma non si può vivere senza fals’Amor, perché con ingannevoli mosse riesce a «piombare» il dado, a falsificarlo senza nascondere l’inganno:

 

Totz li plus savis en van hiure

ses mujol e ses retomba,

cui ill gignos’en cel embla

la crin qe.il pent a la coma

on plus pres li bruit de l’auzil

e plus gentet s’en desloigna;

e.l fols cre mieills d’una monga

car a simple cor e gentil.

 

Ses fals’Amor cuidei viure,

mas ben vei c’un dat mi plomba

qand ieu mieills vei qu’il mo embla;

car tuich li legat de Roma

non son jes de sen tant sotil

que sa devisa messoigna,

que tant soaument caloigna

m’en posca om falsar un fil.[39] [42]

 

Non è la sola immagine danielina riferita espressamente al gioco dei dadi. In Quan chai la fuelha la terza e la quarta strofe sono nettamente caratterizzate dal gioco fra destino e dadi:

 

Bona es vida

pus Joia la mante,

que tals n’escrida

cui ges non vai tan be;

no sai de re

coreillar m’escarida,

que per ma fe

del mielhs ai ma partida.

 

De drudaria

no.m sai de re blasmar,

qu’autrui paria

trastorn en reirazar;

ges ab sa par

no sai doblar m’amia,

q’una non par

que segonda no.l sia.[40] [43]

 

 

Nella partita d’amore Arnaut ha la sorte migliore («del meilhs ai ma partida»)[41] [44], e per questo non può certo accusare il proprio destino («no sai de re / coreillar m’escarida»). Il termine reirazar è fortemente connotato e rinvia ad una fase precisa del gioco dell’azar, che è descritta con precisione nel Libro de los juegos di Alfonso X:

 

Otra manera hay de juego que llaman azar, que se juega en esta guisa. El qui primero oviere de lançar los dados, si lançare quinze puntos o dizeséys o dizesiete o dizeocho o la soçobras d’estas suertes, que son seys o cinco o quatro o tres, gana. ¶ E qualquiere d’estas suertes (en qualquier manera vengan segundo los otros juegos que desuso dixiemos) es llamad<a> azar. ¶ E si por aventura no lança ninguno d’estos azares primeramientre e da all otro por suerte una d’aquellas que son de seys puntos a arriba o de quinze ayuso (en qualquiere manera que pueda venir segundo en los otros juegos dixiemos que vienen) ¶ e depués d’estas lançare alguna de las suertes que aquí dixiemos que son azar, esta suerte será llamada reazar e perderá aquel que primero lançare. ¶ E otrossí, si por aventura no lançare esta suerte que se torna en reazar e tomare pora sí una de las otras suertes, que son de seys puntos a arriba o de quinze ayuso (en qualquiere manera que venga), ¶ converná que lançen tantas vegadas fasta que venga una d’estas suertes: o la suya por que gana o la dell otro por que pierde; salvo ende si tomare aquella misma suerte que dio all otro, que seríe llamada encuentro, ¶ e converníe que tornassen a alançar como de cabo. ¶ E comoquier que viniesse alguna de las suertes que son llamadas azar o reazar, e entretanto que veníe una d’aquellas que amos avíen tomado pora ssí, non ganaríe ninguno d’ellos por ella nin perderíe fasta que se partiesse por las suertes, assí como desuso dize.[42] [45]

 

Il campo metaforico utilizzato nella canzone di Arnaut Daniel ha un parallelo particolarmente stringente in Pois Merces no·m val ni m’ajuda di Daude de Pradas, trovatore attivo fra prima e seconda metà del XIII secolo:

 

Anc de datz non puoc far tenguda,

anz get totz temps a l’autrui pro;

e ges per so mos cors no·s muda

c’ades non joc, tant mi par bo;

car de beutat mi fai envit

e mostra de fin pretz complit

cil que vai en triga volven

mon joc, que, per par, re noi pren.

 

Ja mais per me non er saubuda

l’amors que·m ten en sa preiso;

anz la tenrai ben resconduda,

e dirai ben c’anc res non fo.

E pois vei que no m’es cobit

que si’astrucs en joc partit,

jogarai sols, privadamen,

ab Amor e ab pessamen.[43] [46]

 

Un riscontro analogo nella letteratura occitanica si ha con il romanzo di Flamenca:

 

Amors fai coma cortesa

quar consent que·i aia triga,

quar tan era corals amiga

Flamenca que non sap jugar

ab son amic mais a joc par,

e per aisso tot o gasaina.

Pero, abanz que·l juecs remaina,

cascus o a tot gazainat;

et anc non n’escaperon dat,

car negus non s’irais ni jura.

Fin’Amors tan los asegura

qu’ades lur dis que ben soven

poiran jugar e longamen…[44] [47]

 

[MELANI] Qui e nel passo di Daude de Pradas il temine par rinvia chiaramente alla metaforica partita di dadi  con la dama: la stessa portata allusiva avrà anche nel testo danielino, dove tutta la strofe è sapientemente giocata sull’equivocatio dei termini paria-par–par. Lo stesso discorso varrà anche per doblar, termine tecnico che indica il vincere due volte la posta[45] [48]: tutto l’ambito metaforico utilizzato è proprio della partita ai dadi: il gioco nasce dal pensiero dell’escarida, del destino, e si sviluppa con la menzione esplicita del reir azar, per poi tornare a fine strofe ad un piano di allusività lessicale. D’altronde, la coppia rimica partida : escarida torna anche in un altro testo danielino, Anc ieu non l’aic, mas elha m’a: 

 

Anc ieu non l’aic, mas elha m’a

totz temps en son poder Amors,

e fai·m irat let, savi fol

cum selhui qu’en re no·s torna,

c’om no·s defen qui ben ama,

qu’Amors comanda

qu’om la serv’e blanda:

per qu’ieu n’aten

sufren

bona partida

quan m’er escarida. [46] [49]

 

Nel complesso, quindi, si può effermare che sui diciotto testi danielini, in tre si ha esplicito riferimento al gioco dei dadi, in uno si parla del destino in relazione alla partida, in un altro si parla del luogo deputato al gioco dei dadi, la taverna (su questo passo torneremo in un capitolo a parte). In un altro ancora Arnaut dice di chiamarsi Astrucs:

 

Amors e jois e luecs e temps

mi fan tornar lo sen en derc

d’aquel joi qu’avia l’autr’an

qan chassava lebr’ab lo bou:

ara·m va meils d’Amor e pieis,

car ben am, d’aizo·m clam Astrucs;

ma Non-Amatz ai nom anquers

s’Amors no venz son dur cor e·l mieus precs.

 

E alla semantica del cattivo influsso degli astri sui maldicenti rinvia Si·m fos Amors de joi donar tan larga, 

 

mals astres es qui·us ten desconoissens

que piegers es qui plus vos amonesta

 

Una poesia che si concentra sul destino, sulla fortuna al gioco e in amore, sulla mutevolezza delle cose e dei sentimenti, sull’influsso benefico o malefico degli astri. Tutto ciò, ritengo, è la radice culturale e semantica da cui nasce la «sestina», facendosi Forma.

 

 

[1] [50] Du Cange, s.v., dove si cita un passaggio dal Cod. Reg. 4622, f. 105v: «Non fiat, nec teneatur aliqua barataria ludi taxillorum… in aliquibus contratis nec parrochiis, nec domibus civitatis et confiniorum Cumarum per aliquos stipendiarios, baraterios, Arnoldos etc.»

 

[2] [51] Così definito da Nelli 1977, p. 86.

 

[3] [52] Contini 1936, p. 223.

 

[4] [53] Un «sirventese singolare e poco meno che scandaloso» lo ebbe a definire Contini, nel quale Arnaut Daniel «si mette in polemica con due suoi colleghi» (cf. Ibidem). La polemica si spostò sul piano esegetico con la proposta di Perugi 1978, II, pp. 3-70 di vedere nel corn altro da ciò che tutti gli altri commentatori vi vedevano, proposta che ha dato luogo alle rettifiche di Lazzerini 1981-1983 (ripreso in Lazzerini 1989) e di Eusebi 1984, p. 000. Cf. anche D’Agostino 1990, e sul nome di Turc Malec, Latella 1990. Così riepiloga l’affaire Cornilh, Sansone 1992, p. 139: «Per levarsi di torno Bernat la dama chiede allo spasimante di cornar lo corn, cioè di soffiarle (per così dire) nel deratano; altrimenti ella non sarà sua […]. Don Bernardo inorridito fugge e si ritira; e da qui scatta la controversia, ché Raimon, come Truc Malec, tratta da dissennato quel Bernat de Cornes nativo di Cornilh (la base è sempre corn), mentre Arnaut Daniel difende sì il malcapitato corteggiatore, ma dando vita a un testo di rara coprolalia e scollacciato come solo può essere l’opera di chi si diverte da matto».

 

[5] [54] Perugi 1978, p. 10. 

 

[6] [55] Contini 1936, p. 231, vv. 28-36. Il sirventes è tràdito da ADHIK e da CR. Gli ultimi due canzonieri risultano lacunosi del verso in cui è riportato il passo in questione (v. 30); HIKD portano q(u)i al posto di cui e IKDhanno confon al posto di coffondon portato da AH. Il solo A porta datz al posto di dat. Ecco quindi le lezioni dei singoli canzonieri:

 

qui coffon dat e tauliers IKD

qui coffondon dat e tauliers H

cui coffondon datz e tauliers A

 

La scelta di Contini per la lezione di A è perfettamente conforme allo stemma in cui A è ad un piano più in alto degli altri canzonieri. Perugi metteva in discussione la scelta continiana, ritenendo che in tutti i serventesi del ciclo poetico dell’«affaire Cornilh» il terzo verso dovesse essere un eptasillabo. Quindi scioglieva: «Cui coffon dat e tauliers». Cf. Perugi 1978, pp. 10-17, in particolare 15-16: «Le soluzioni divaricate di *A* e di *DIK* (*H* è chiaramente contaminato) mostrano che i fattori in tensione bipolare a immediato contatto sono, da una parte la variante difficilior del pronome-oggetto relativo Cui, dall’altra il verbo singolare applicato a una coppia di soggetti […]. La soluzione di *AH* consiste in un ovvio shifting personale che contemporaneamente vale ad attingere la misura ottosillabica, mentre presso *DIK* Cui scade altrettanto banalmente a Qui. A questo punto s’innesta il problema relativo alla flessione di dat: solo *A*, il ms. manifestamente più innovativo, ha datz, e ciò è tanto più indicativo in quanto il morfema non è necessario alla struttura proposta dal ms. (cfr. la redazione gemella di *H*): viceversa *DIK*, per i quali datz sarebbe stato molto più naturale, conservano dat. La risposta non può che essere una: dat è un cas-sujet singolare con terminazione tipicamente limosina, la quale -nel complesso delle vicende della tradizione manoscritta relativa a questo verso -funziona indubbiamente da fattore dinamico collaterale».

 

[7] [56] Cf. Contini 1936, p. 223.

 

[8] [57] Cf. Eusebi 1984, p. 3: «L’attribuzione a Arnaut Daniel non è unanime, ma basterà ad assicurargliela, una volta esclusa quella a Guiraut de Bornelh (A) per il duro attacco a un Arnaut nel serventese Ben es malastrucx dolens di Raimon de Durfort, ricordare che l’altro Arnaut, al quale l’attribuiscono CR, non fu mai rimatore aspro e violento».

 

[9] [58] Per i primi tre testi si segue l’ed. Contini 1936, pp. 228-231 per quello di Arnaut, l’ed. Eusebi 1984, pp. 4-9. La traduzione italiana dell’intero ciclo di sirventesi è in Sansone 1992, pp. 88-101.

 

[10] [59] Ed. Contini 1936, p. 228-229.

 

[11] [60] Ibidem, p. 229.

 

[12] [61] Ibidem, pp. 230-231.

 

[13] [62] Lo stemma codicum di Contini 1936 oppone A.H;DIK a  CR; concorda con esso quello di Eusebi 1984, p. 3 che, per il solo Pus Raimons e Trucs malecs, pone però H su un piano più alto di A e lega quest’ultimo a D (quindi: H.IK;DA da un lato e CR dall’altro). In ogni caso la serie di sirventesi conferma l’opposizione dei rami e [epsilon] e y su cui cf. Avalle 1961 [1993], p. 000.

 

[14] [63] Cf. Contini 1936, p. 224.

 

[15] [64] Cf. Bec 1984, p. 139: «Il est probable que c’est Truc Malec qui ouvrit le débat, dans une canso dont nous n’avons conservé qu’une seule cobla, suivi par la première pièce de Raimon, à laquelle répond à son tour Arnaud Daniel. Enfin, dans une seconde canso-sirventes, Raimon critique à la fois, en son nom personnel et en celui de son ami Truc Malec, l’attitude “négative” d’Arnaud Daniel et de l’infortuné Bernard».

 

[16] [65] Infatti la cobla con cui Bec fa iniziare la vicenda non può non far riferimento alla posizione espressa da Raimon de Durfort: cf. infra.

 

[17] [66] Cf. Contini 1936, p. 224, nota 3.

 

[18] [67] Cf. Eusebi 1984, p. 3. 

 

[19] [68] La rima della prima cobla, che è certamente la più caratterizzata, in –ecs, si ritrova in altre tre poesie di Arnaut Daniel: in L’aura amara, con 5 rimanti comuni al sirventes: becx, decs, precs, pecs, secs; in Dous braitz e critz, anche qui con 5 rimanti comuni: becs, decs, grecs, pecs, precs; in Amors e jois e luecs e temps, sempre con 5 rimanti comuni: decs, precs, pecs, secs, senecs (?). Complessivamente della prima cobla del sirventes otto rimanti su nove sono stati utilizzati da Arnaut Daniel: l’unico non utilizzato è Truc Malecs, che evidentemente non è iterabile. La rima in –ecs è piuttosto rara: l’unico ad utilizzarla in più di un componimento è proprio Arnaut Daniel, altrimenti si riscontra nell’opera di altri sei trovatori (nelle due forme con vocale chiusa o aperta) quasi tutti più tardi: fra essi manca evidentemente Arnaut de Maruelh. La rima in –utz della seconda cobla è invece piuttosto diffusa, ma è significativo che in Arnaut Daniel torni sempre in L’aur’amara, con un rimante comune (condutz), e che non sia invece utilizzata da Arnaut de Maruelh. Nell’opera di questo trovatore, invece, si ritrova la rima in –ais, che è presente nella terza cobla del sirventes(in BdT 30, 10 e in BdT 30, 19), ma è assente la rima della quarta cobla, in –ort, che invece è utilizzata da Arnaut Daniel in D’autra guiz’e d’autra razo con 4 rimanti comuni: tort, mort, deport, acort (?). Si aggiunga che la rima dell’ultima cobla, in –ilh, indotta dal nome del protagonista dell’«affaire» e assente sia nelle poesie di Arnaut Daniel che in quelle Arnaut de Maruelh, ha un analogo fonico in due testi danielini con rima in –il: questa rima non è invece frequentata da Arnaut de Maruelh.

 

[20] [69] Sui nomi parlanti nelle culture arcaiche, cf. Dover 1963 e Ibidem, pp. 213-222, la discussione cui parteciparono W. Dühler, D. Page, J. Poullux, B. Snell, M. Treu e E. K. H. Wistrand. Sullo stesso argomento cf. Bonanno 1980, e da ultimo l’esauriente volume di Marzullo 1993, con ricchissima esemplificazione sui nomi parlanti nelle commedie di Aristofane. Per altri nomi parlanti nella lirica trobadorica, cf. Roncaglia 1953, p. 18-20.

 

[21] [70] Cf. Latella 1990, p. 79. Secondo l’autrice sarebbe «da prendere in seria considerazione la valenza “gros caillou; homme sans intelligence” registrata (FEW, XIII, 2, 327) proprio nelle zone del midi, senza tuttavia accantonare l’accezione di “homme qui se prostitue” (FEW, XIII, 2, 328), appropriata al tema dibattuto e all’humour osceno che permea i testi del ciclo tenzonatorio, molto vicina del resto (tanto da dare spesso luogo a sovrapposizioni ed incroci) alla sostanza denotativa connessa all’ipocoristico derivato maschile di troja, particolarmente diffuso nelle regioni occidentali della Francia». Spaggiari 1990, pp. 343-344 sembrerebbe invece propensa a connettere Truc Malec a Naturmalec presente nelle varianti di AIK del testo che Marcabru invia ad Audric del Vilar (cf. qui infra), instituendo quindi l’importante equazione Natur = Truc). Si noti che già Kendrick 1988, p. 208 aveva proposto di interpretare il nome come «sterile no-good lecher».

 

[22] [71] Ed. Guida 1979, p. 313. Cf. anche la nota Ibidem, pp. 327-328: «Può quindi darsi benissimo che Gavaudan abbia pensato di infondere qui al sostantivo truc proprio il significato di “urto corporeo”, di “insidioso contatto sessuale”, di “ingannevole amplesso”».

 

[23] [72] Ed. Boni 1954, p. 114. In nota (Ibidem, p. 120) Boni accetta l’interpretazione di SW, VIII, 507 (‘ohne Irrtum, ohne Trug’). Levy annota: «Es liegt nahe, dem ses truc der Stelle aus Sordel zwei Fälle von sens truigleichzustellen, die sich in einem Peire Raimon de Toloza zugeschriebenen, vielleicht aber Peire Bremon lo Tort zugehörigen gedicht […] finden». I passi in questione: «s’ab lei trob merce grasen, Grat n’aura, e merces eissamen Sen[s] trui s’endui   leis ab grat, on jois jatz (Hs. latz), Per cui   relui   ab grat rics presatz» e «Pres fin a n’Audiarç valent / del Bautz, il et el’eissamen, Don cui sens trui certz prez s’es ensertatz». Secondo Levy «‘Trug’ scheint mir auch bei Sordel und vielleich bei Gavaudan zu passen». Per entruchar nel senso di “tromper” è attestato in antico provenzale già nel XIII secolo, cf. anche FEW, XIII, 328.

 

[24] [73] Cf. Latella VVVV, VVVV.

 

[25] [74] Cf. FEW, XVI, 455-462 e Du Cange, s.v. lecator.

 

[26] [75] Ed. Déjeanne 1909, p. 101. Sulla questione, cf. Spaggiari 1990. Nella varia lectio tutto un ramo della tradizione, cioè ADIK, porta Naturmalec (IK Natunalec), e Artimalec è tràdito solamente da CR, mentre in a si ha aitan malec in un contesto complessivamente differente. Così la strofe in a: «De lenguejar / Contra joglar / Es plus afilatz que magran. / Aitan malec / De vostre bec / Nos iauzi anc nul crestian»; e poi in tornada: «Del vostre bec / Aitan malec / Nos iauzi anc nul crestian» (Ed. Déjeanne 1909, p. 102). Sempre a proposito di riscontri marcabruniani, si ricorderà che in Al prim comens de l’invernaill è utilizzata la parola rimante palutz(«Qand ve·l temps frei e las palutz» v. 8), richiamata nel sirventes di Arnaut Daniel Piu Raimons e Truc Malecx (al v. 13).

 

[27] [76] Cf. Spaggiari 1990, p. 345. Si ricordi che il motivo del bec è importante anche nella «sestina» ed è presente nel sirventes di Arnaut Daniel.

 

[28] [77] Cf. Canello 1883, p. 187.

 

[29] [78] Per un’anticipazione degli inizi dell’attività di Arnaut Daniel cf. Gouiran 1988, VVVV.

 

[30] [79] Ho tratto le informazioni relative ai Durfort dalla dettagliatissima nota in proposito di Avalle 1960, pp. 410-412.

 

[31] [80] Cf. De Bartholomaeis 1927, pp. 22-23.

 

[32] [81] Sonetto LX, ed. Contini VVVV [1984], p. 624. Sull’interpretazione oscena del testo cf. Pertile 1993, pp. 150-153, con considerazioni sulla possibilità di intendere in tal senso addirittura il nome di Durante: «È mia impressione che Durante sia uno di quei nomi infelici che sembrano fatti apposta per essere rimati, canzonati, distorti, piegati a doppi sensi osceni nelle beffe delle scolaresche italiane d’ogni epoca e regione. È un nome che, pur essendo del tutto acettabile al’anagrafe fiorentina, può funzionare in verità anche come epiteto, prestandosi singolarmente a sintetizzare in una sola parola la condizione fisiologica in cui è proteso il personaggio di Amante dall’inizio alla fine della sua avventura. Nel sonetto LXXXII il dio d’Amore dice che si sente in dovere di soccorrere Durante perché questo ha resistito fermo e stante ai sermoni di Ragione […] Stante indica la direzione in cui è fermo e proteso, contro tutti i dettami di Ragione, l’oggetto del discorso d’Amore […]: dunque “fermo e ritto”; e ci vuole poco per immaginare quale sia l’oggetto che Amore ha in mente, l’unico tra l’altro […] cui si convenga nel contesto d’incaponirsi contro Ragione, e l’unico a cui, con mossa comico-popolaresca da mondo alla rovescia, il Dio d’Amore possa cui possa offrire sostegno. Durante, dunque, perché fermo e stante, con cui non per nulla rima: il giuoco di parole non potrebbe essere più chiaro» (pp. 150-151). La lettura di Pertile è accettata da Maffia Scariati 1994, pp. 48-51 che, pur parteggiando con Contini nell’identificare Durante con Dante Alighieri, corrobora in modo convincente l’ipotesi dell’interpretatio nominis: Dante infatti nel Fiore avrebbe giocato su Durante in chiave comica come nella Commedia giocherà su Alagherius < “alas gerere” in chiave seria (cf. p. 49, con rinvio a Gorni 1990, p. 185 per l’interpretazione paraetimologica di Alagherius). Secondo Maffia Scariati (p. 50) le sconcezze del Fioresarebbero emendate nel canto XXVII del Purgatorio, vv. 29-42 con la ripresa di vari elementi stilistici come: 1) la serie rimica sicuro : duro : muro nello stesso ordine; 2) il verbo fare (v. 29: «fatti ver lei, e fatti far credenza»), che era stato utilizzato in senso osceno in più luoghi del Fiore; 3) l’aggettivo fermo (v. 00: «E io pur fermo e contra coscienza» e v. 00: «Quando mi vide star pur fermo e duro»), che rinvia alla caratterizzazione di Durante come «fermo e stante». Centrale mi sembra la considerazione fatta dalla studiosa sulle ragioni della scelta di questo luogo del Purgatorio a fine palinodico: «la lussuria, il primo peccato da cui Dante si libera nell’Inferno, è anche l’ultimo che lo separa da Beatrice e che sarà spento, per la legge del contrappasso, dal fuoco purificatore, preceduto da un atto di contrizione, il diniego di Dante della propria durezza. Solo dopo la necessaria rimozione degli strati onomastici poco rispettabili le potenzialità dell’“Alagherius” potranno attualizzarsi: “Tanto voler sopra voler mi venne / d’esser su, ch’ad ogni passo poi / al volo mi sentia crescer le penne” (Purg. XXVII, 121-123)». Si ricorderà, a rincalzo, che l’ultimo peccatore purgante è proprio Arnaut Daniel, autore citatissimo nel Fiore (cf. Perugi 1978a, VVV) e che la sua presenza fra i lussuriosi è dovuta per molti critici all’aver preso parte all’«affaire Cornilh»: non si può quindi escludere che Dante avesse compreso il gioco su Durfort, magari già all’altezza del Fiore e che quindi abbia messo in opera una palinodia a più livelli. Evidentemente, ciò non è senza conseguenze sull’interpretazione dantesca del Ferm voler: le parole del noto incipit sono infatti tutte ben connotate e presenti nei passi sopra citati di Purgatorio XXVII (cui si aggiunga, almeno v. 00: «volgiti in qua; vieni ed entra sicuro!»).

 

[33] [82] Ed. Marti 1956, p. 108, vv. 1-8. Su un probabile analogo gioco di toponimia, con dur (Dur-os) cf. anche Pus ubert ai mon ric thesaur di Peire Vidal, ed. Avalle 1960, p. 294, v. 61 e nota relativa.

 

[34] [83] Cf. la vida del trovatore nell’ed. di Boutière, Schutz  & Cluzel 1973, p. 59.

 

[35] [84] Contini 1961 [1970], p. 317. Per un’interessante comparazione fra i goliardi e gli autori di fabliaux, cf. Wailes 1974.

 

[36] [85] Boutière, Schutz & Cluzel 1973, p. 167. 

 

[37] [86] Ed. Gouiran 1987, p. 560.

 

[38] [87] Ed. Liguori in stampa (si ringrazia l’editrice per aver gentilmente a disposizione il testo e la traduzione del fabliau).

 

[39] [88] Eusebi 1984, pp. 26-7, vv.17-32.

 

[40] [89] Ed. Eusebi 1984, pp. 20-21.

 

[41] [90] Non sembra attestato nei lessici il lemma partida con l’accezione di «gioco fra due o più persone», come «partita a scacchi», «partita a dadi», etc., anche se l’ambito che riferisce alla discussione, alla «dilemmatische Frage», al dibatito concorrenziale e quindi al genere del partimen (cf. SW, VI, 98, n°7) si avvicina notevolmente al senso che ci interessa: il gioco dialettico del partimen è interpretabile come corrispondente sul piano dei generi di una partita a due. Per la frase «del meilhs aver» cf. Semrau 1910, p. 82: «Am besten, am schlechtesten stehen» (avoir le pis nel Roman de la Rose, 8073). Nel nostro  caso sarà «avere la meglio», «vincere», attestato anche in italiano.

 

[42] [91] Ed. Canettieri 1996, p. 000. Sul gioco dell’azar, nella letteratura antico-francese cf. anche BIBLIOGR. MEHL SU S. NICOLAS E S. PIERRE. Sulla base di tale descrizione del reirazar sarà quindi da corregere Toya 1961, p. 209, secondo cui «il vocabolo composto (reir, retro, e azar, dado, dall’arabo az-zar) indica una mossa in perdita al gioco dei dadi, in seguito alla quale si deve spostare indietro la pedina». Il reirazar, nel senso tecnico qui enunciato, si incontra anche in un sonetto di Guittone d’Arezzo: «Lo nom’al vero fatt’ à parentado: / le vacche par che tt’abbian abracciato,/ over che tt’ àn le stregh’amaliato, / tanto da lunga se’ partit’o’ vado. / Zara dirieto m’ à gittato ‘l dado: / ciò non serea se l’avess’ e’ grappato». 

 

[43] [92] Ed. Schutz 1933, p. 23, vv. 9-16. La traduzione di Schutz (Ibidem, p. 25) non è del tutto chiara: «Jamais je ne pus garder les dés (?), mais je les jette toujours à l’avantage d’autrui. Cepandant mon coeur ne s’abstient pas pour cela de jouer, tant cela me plaît, car la personne qui retarde mon jeu (en gagnant continuellement) met devant mes yeux comme invite sa beauté, et comme enjeu (?) la perfection de son mérite, de sorte que, dans cette partie à deux, je ne gagne rien. Jamais par moi l’on ne saura l’amour qui me tient en sa prison; au contraire, je le garderai bien caché, et je dirai bien que jamais il n’en fut rien; et puisqu’il m’est défendu d’avoir de la chance au jeu apparié, je jouerai seul, en secret, avec Amour et [mes] pensées», ma si veda l’interpretazione fornita qui in Appendice, contestualmente all’edizione del Libro de los juegos di Alfonso X.

 

[44] [93] Ed. Huchet 1988, p. 356-357, vv. 6508-6520.

 

[45] [94] Su doblar, cf. Semrau 1910, p. 66: «In der Guerre de Navarre werden die Einwohner einer Stadt beim governaire vorstellig, dass in der  benachbarten Stadt übertrieben starke Befestigungen angelegt wereden, wodurch sie in Nachteil und Gefahr geraten: “que, si jogan com solo, doblaran les embitz, / e guazainn qui puira” (v. 738), “spielen sie so weiter wie bisher, dann werden sie den Einsatz verdoppeln”, d. h. dann sind sie doppelt so stark wie wir. Ebenso scheint in der Tenzone Faure-Falconet (Selbach 1886, p. 103, V) doblardiesen Sinn zu haben: “En Falconet, mas lo jocs es cregutz. / Ie.l doblaray del senhor de cuy fo / say (?) Folcalquier, don es coms abatutz”».

 

[46] [95] Ed. Eusebi 1984, p. 42.

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La donna amata da Arnaut Daniel

La donna amata da Arnaut Daniel. Documenti su Guillem de Bouvila e sua moglie*

 

La biografia antica del trovatore Arnaut Daniel ci dice che egli «amet una auta domna de Gascoingna, muiller d’En Guillem de Buovilla» [Amò una nobildonna della Guascogna, moglie di Guillem de Bouville]. Anche se molto si è discusso su questa dama, fino ad oggi l’auta domna e suo marito sono rimasti non identificati.
Siamo in grado, tuttavia, di dare un'identità abbastanza precisa ad En Guillem de Buovilla.
Nel sito della Foundation for Medieval Genealogy [96] (sezione relativa alla Guascogna), la cui fonte è qui [97],  trovo menzionati sia Guillem de Bouvila sia sua moglie nel capitolo sui visconti di Bezaume (Gabarret). Si tratta certamente dei signori ai quali fa menzione la vida, in quanto coincidono sia i luoghi (la Guascogna) sia i tempi (la fine del XII secolo). Guillem è accostato a Peire de Gabarret, il figlio di Bernart de Gabarret de Bouvila e della figlia del visconte di Bezaume, Bernart:

 

Bernard & his wife had two children: 

PIERRE de Gabarret (-before 21 May 1242).  Vicomte de Bezaume et de Bénauges.  Seigneur de Saint-Macaire et en partie de Langon.  Pierre de Gabarret Vicomte de Bezaume was present with “Guillaume de Boville” at an assembly held at Bordeaux 3 Apr 1198 to celebrate the canonisation of Saint Géraud, founder of Grande-Sauve.  

GUILLAUME de Boville (-after 3 Apr 1198).  Pierre de Gabarret Vicomte de Bezaume was present with “Guillaume de Boville” at an assembly held at Bordeaux 3 Apr 1198 to celebrate the canonisation of Saint Géraud, founder of Grande-Sauve.  He may have been a younger brother of Bernard de Gabarret Vicomte de Bezaume.

Al momento, della moglie di questo signore guascone, purtroppo, non conosciamo l'identità.

* Ho corretto alcune imprecisioni di questa scheda, già pubblicata su knoll nel 2008, a seguito della lettura dei giusti rilievi fatti ad essa da R. Harvey, in Miscellanea...Saverio Guida, 2022, pp. 241-54.

 
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La taverna e l'officina

La taverna e l'officina. Il giullare e il fabbro nella poesia dei trovatori

L’antica biografia del trovatore Arnaut Daniel ci informa del fatto che egli «amparet ben letras e fetz se joglar, e pres una maniera de trobar en caras rimas, per que sa cansons no son leus ad entendre ni ad aprendre».  Questo autore era quindi un esponente di quella «corrente» poetica denominata (a proposito o meno) del trobar car, cioè dello stile ricercato e prezioso. Come lui, Raimbaut d’Aurenga, che «fo bons trobaires de vers e de chansons; mas mout s’entendeit en far caras rimas e cluzas». Raimbaut d’Aurenga è, come noto, un maestro importante per Arnaut Daniel: il principio dell’utilizzazione di parole-rima (anche se con diversa permutazione interstrofica) è probabilmente ripreso dalla magnifica canzone invernale del conte d’Orange, Ar resplan la flors enversa.

L’utilizzo esclusivo dell’arte retorica aveva avuto la sua giustificazione di valore nella famosa tenzone, databile intorno al 1170, in cui Giraut de Bornelh aveva preso partito per il trobar leu e Raimbaut d’Aurenga per il trobar clus. L’argomentazione difensiva di Raimbaut d’Aurenga si fondava sulla differenza qualitativa che sussiste fra i due stili: secondo tale concezione il trobar clus sarebbe da preferire al trobar leu poiché questo rende uguali tutte le composizioni. Il trobar clus, invece, è più prezioso (plus car) e per tale ragione vale di più (v. 21). La fondazione di una maniera preziosa dello stile trobadorico, denominata trobar car o prim o ric, passa attraverso il recupero, operato essenzialmente da Raimbaut d’Aurenga (ma in buona parte anche da Peire d’Alvernhe) del sostanzioso trobar naturau marcabruniano. Questa forma preziosa deltrobar è stata considerata infatti da buona parte della critica che si è occupata dell’argomento come la sintesi, realizzatasi fra la metà e la fine del XII secolo, fra le due maniere: della prima avrebbe sussunto la nettezza dei contenuti e della seconda la ricchezza lessicale, retorica, stilistica, ricchezza che avrebbe avuto la sua manifestazione più forte ed evidente soprattutto in sede rimica [Pollmann 1965, p. 44; Mölk 1968, pp. 126-130; Gruber 1983]. Nella poetica degli autori del trobar car la forma sarebbe dichiaratamente l’espressione conveniente dellafin’amor: per tale ragione il contenuto della poesia dovrebbe, viceversa, essere facile ad intendersi[5] [98]. Certamente tale interpretazione ha il vantaggio della chiarezza, e a poco valgono speciosi tentativi di annullarne l’interesse euristico tramite l’analisi dettagliata dei termini in questione[6] [99]. La netta separazione fra il trobar di Marcabru, quello di Bernart de Ventadorn, quello di Raimbaut d’Aurenga e di Arnaut Daniel è palese indipendentemente dalla denominazione che alle rispettive maniere si voglia attribuire[7] [100].

Il trobar car ha inoltre un’importante connotazione che circoscrive un aristocratico disegno di assimilazione del preziosismo all’oscurità e al «poco giorno»: lo stile prezioso è scuro come l’inverno, lo stile piano è chiaro come la bella stagione[8] [101]. Come è stato giustamente osservato[9] [102], è Dejosta·ls breus temps e·ls lonc sers di Peire d’Alvernhe, un componimento la cui eccellenza sul piano melodico è dichiarata nella vida del trovatore[10] [103], che segna l’inizio del nuovo modo di comporre e gli imprime un marchio che giungerà fino alle rime petrose di Dante Alighieri, nella cui «sestina» il debito e il riconoscimento della priorità cronologica e qualitativa del componimento si farà palese con la citazione incipitaria Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra[11] [104]: in questo senso la scelta del giorno più scuro dell’anno, quello di Santa Lucia, non è certo senza rapporto con l’intenzione di superare, quanto a preziosismo, i modelli trobadorici e italiani[12] [105]. Dante riunisce quindi nel ciclo per la Donna Petra tutti gli elementi operanti nei testi che hanno aperto la via alla «sestina» arnaldiana, nel tentativo di dare una risposta definitiva al preziosismo trobadorico e di fissare i termini estremi, qualitativi e cronologici, del modo prezioso[13] [106].

In effetti, c’è un’ideologia saturnina dietro il trobar car che in modo mediato potrebbe essersi riverberata, attraverso la mediazione di Raimbaut d’Aurenga, anche nell’opera di Arnaut Daniel[14] [107]. Proprio Raimbaut, d’altro canto, in una poesia le cui coblascominciano tutte con Car, traccia una precisa corrispondenza fra il preziosismo, l’oscurità lessicale e le capacità dell’artista di limare la ruggine delle parole. Cars, douz e feinz del bederesc costituisce evidentemente una tappa importante nel rapporto di relazioni fra Marcabru, Raimbaut d’Aurenga e Arnaut Daniel e nell’operazione che porta alla completa valorizzazione della maniera preziosa: si è già parlato di Cars, douz e feinz come una possibile fonte della verga presente in Lo ferm voler[15] [108]. Anche per tale ragione, le dichiarazioni di poetica in essa contenute andranno valutate attentamente:

 

Cars, brun e tenz motz entrebesc:

Pensius, pensanz, enquier e serc –

Com si liman pogues roire

L’estrain roïll ni·l fer tiure –

Don mon escur cor esclaire.

Tot cant Jois genseis esclaira

Malvestatz roïll’e tiura,

E enclau Joven en serca

Per q’Ira Joi entrebesca[16] [109].

 

Il nesso fra l’oscurità del cuore del poeta e lo stile della poesia è patente, come anche la funzione centrale del fabbro che lima il ferro, come Joi rischiara il cuore arrugginito da Malvestat. Il legame fra l’intimo del poeta e l’esplicitazione del sentimento nella poesia è cioè chiaramente messo in relazione con la capacità artigiana. L’allusione a Marcabru si manifesta, a mio avviso, già nel primo verso di questa cobla, con quelCars, bruns, che non poteva non richiamare il «nome di Marcabru»[17] [110]. Ma parodia del trovatore d’Orange va ben oltre: si è visto che la polemica marcabruniana era diretta contro i «menut trobador bergau / entrebesquill», cui evidentemente Raimbaut d’Aurenga assimila se stesso quando afferma di «entrebescar motz», e la superiorità di Marcabru era orgogliosamente dichiarata, ribadendo l’impossibilità di trovare «mot de roïll» nel suo vers. Raimbaut afferma che, suo malgrado, la ruggine non è solo nelle sue parole, ma incrosta anche il suo cuore: solo con il lavoro di lima essa può essere rimossa, sia dal vers, che dal cuore. È quindi il lavoro artigianale, l’utilizzo dell’arte retorica, che può rischiarare la poesia e depurare il sentimento inquinato da una connaturata Malvestatz. La polemica e la dichiarazione di poetica, quindi, non potrebbe essere più chiara: al moralista che si era opposto alla «falsa razo daurada» che andava prendendo sempre più il passo a quei tempi, Raimbaut risponde che la chiarezza, la limpidezza dei concetti e delle parole proviene proprio dal lavoro fabbrile, inserendosi così fra gli esponenti del «trobar a frau»: coloro che trovano ingannevolmente i difetti del comporre marcabruniano, e coloro che in proprio, fanno uso dell’arte retorica.

Gli stessi concetti, sia pur mediati e posti al servizio di un trobar solo apparentemente più leu, sono presenti in un testo molto importante per definire le radici dello stile poetico di Arnaut Daniel, En aital rimeta prima; in esso si individua sia il motivo della ruggine, che quello della lima, unitamente ad una serie di rinvii al fare artigiano e muratorio e a più motivi di ispirazione che saranno tipici dello stile di Arnaut Daniel:

 

En aital rimeta prima

M’agradon lieu mot e prim

Bastit ses regl’e ses linha,

Pos mos volers s’i apila;

E atozat ai mon linh 5

Lai on ai cor qe m’apil

Per totz temps, e qi·n grondilha

No tem’auzir mon grondilh

 

De la falsa genz de lima

E dech’e ditz (don quec lim) 10

Ez estreinh e mostr’e guinha

(So don Joi frainh e esfila),

Per q’ieu sec e pols e guinh:

Mas ieu no·m part del dreg fil,

Car mos talenz no·s roïlha, 15

Q’en Joi nos ferm ses roïlh

 

Qan vei rengat en la cima

Man vert-madur frug pel cim,

E qecs auzelletz relinha

Vas Amor, don chant’e qila, 20

Per cui ieu vas Joi relinh,

Don m’esfortz e chant e qil;

E·l rosinhol s’estendilha

Qe’m nafra d’amor tendilh,

 

Si que·l cor m’art, mas no·m rima 25

Ren de foras, mas dinz rim;

Q’Amors l’enclav’e l’escrinha

-Si! pels sans qi son part Mila!-

E·l ten pres dinz son escrinh;

Q’ades am mais per n mil 30

Midons, si tot si·m perilha

Ni·m mou trebailh ni perilh[18] [111].

 

In questa canzone è sicuramente da vedere il nucleo generatore di Canso do·ill mot son plan e prim, un testo di Arnaut Daniel con una tradizione manoscritta pari a quella della «sestina», e ad essa associato in più manoscritti[19] [112]. Il legame di Canso do·ill mot son plan e prim con En aital rimeta prima è denunciato dall’incipit, forgiato sul secondo verso, «M’agradon lieu mot e prim», ed è ribadito con la ripresa sistematica delle parole con rima in –im presenti nelle prime tre strofe della rimeta. La dichiarazione di Arnaut Daniel di voler comporre «con arte d’Amore» è accompagnata da un esplicito rinvio alla rimeta di Raimbaut d’Aurenga. Si legga il noto passo arnaldiano:

 

Pels bruelhs aug lo chan e·l refrim,

e per qu’om no m’en fassa crim

obri e lim

motz de valor

ab art d’Amor[20] [113].

 

Anche la dittologia «ard’e rim» che troviamo in un altro luogo della canzone arnaldiana («dreitz es lacrim / e ard’e rim / sel que d’amor janguelha»[21] [114]), richiama, oltre ad un passo dello stesso autore[22] [115], anche l’inizio della prima strofe della rimetadi Raimbaut d’Aurenga («Si que·l cor m’art, mas no·m rima / Ren de foras, mas dinz rim»). L’ardere del cuore rappresentato mettendo in rima la parola rima non poteva sfuggire al fabbro che lima parole «con arte d’Amore». È di notevole interesse che la permutazione delle rime di Canso do·ill mot son plan e prim sia organizzata secondo un meccanismo di rotazione che sarà utilizzato anche dal Petrarca e che è affine a quello della «sestina», per la cosiddetta circolarizzazione, cioè per l’interruzione del processo permutativo prima che la permutazione sia tornata al punto di partenza[23] [116]: sia la ricchezza della nuova maniera poetica che la qualità artigianale del componimento potevano sostanziarsi anche del gioco di permutazione rimica. Ecco quindi che la canzone che più nettamente definisce il modo poetico arnaldiano, anche nella scelta delle serie rimiche e della terminologia di dettaglio, riprende con chiarezza i moduli stilistici più tipici di Raimbaut d’Aurenga e mette in gioco una permutazione per certi versi non dissimile da quella di Lo ferm voler, testo che a sua volta vede in Ar resplan la flors enversa il modello per ciò che riguarda l’utilizzo sistematico delle parole-rima. L’arte del buon gioielliere non sta solamente nel dirozzare le pietre e nel tagliarle, ma anche nel disporle nella maniera più idonea e nel farle interagire fra loro nel modo più opportuno.

Chanso do·ill mot son plan e prim non è una canzone invernale, come quelle più importanti legate alla poetica del trobar car, è anzi una canzone che lega la propria esistenza alla gioia della stagione primaverile. Forse per tale ragione, quasi come contrappasso di un’infrazione alla norma inaugurata da Peire d’Alvernhe, Arnaut Daniel ha composto un altro testo, fortemente legato fonicamente a Chanso do·ill mot son plan e prim, ma ambientato in inverno. Si tratta di Quan chai la fuelha, la cui parentela è accertabile già al confronto delle prime strofe:

 

Canso do·ill mot son plan e prim Quan chai la fuelha

fas pus era botono·ill vim, dels aussors entressims

e l’ausor sim e·l freg s’erguelha

son de color don seca·l vais e·l vims

de mainhta flor, dels dous refrims

e verdeia la fuelha, vei sordezir la bruelha:

e·ill chant e·ill bralh mas ieu sui prims

sono a l’ombralh d’Amor, qui que s’en tuelha.

dels auzels per la bruelha

 

Apparentemente costruito su una struttura metrica molto semplice, in realtà Quan chai la fuelha è imbastito su un raffinatissimo gioco di corrispondenze vocaliche a coppie di strofe[24] [117]: come si è visto alle strofe III e IV, in posizione assolutamente centrale rispetto alla struttura esastrofica di questa composizione, Arnaut Daniel si ricorda, oltre che del suo destino, anche del gioco che lo ossessionava[25] [118]. Così nel componimento più direttamente legato a quello che definisce artigianalmente la poetica arnaldiana, quasi il suo pendant invernale, si affaccia la metafora del joc.

Si è detto che la maestria artigianale e il gioco sono due elementi che, tenuti a battesimo da Guglielmo IX, ritornano spesso a caratterizzare il trobar[26] [119]: in Ab gai so cuindet e leri, la poesia che ha probabilmente generato l’epiteto di «miglior fabbro» che Dante assegna ad Arnaut Daniel, i due elementi del mester e del joc sono ancora una volta associati alla poetica o alle virtù sentimentali del trovatore. L’intero componimento è intessuto di metafore volte a esprimere il legame fondamentale fra amore e arte:

 

Ab guai so cuindet e leri

fas motz e capus e doli,

que seran verai e sert

quan n’aurai passat la lima,

qu’Amor marves plan’e daura 5

mon chantar que de lieis mueu

cui Pretz manten e governa.

 

Tot jorn melhur e esmeri

quar la gensor am e coli

del mon, so·us dic en apert: 10

sieu so del pe tro qu’al cima,

e si tot venta·ill freg’aura,

l’amor qu’ins el cor mi plueu

mi ten caut on plus iverna.

 

Mil messas n’aug e.n proferi 15

art lum de cer’e d’oli

que Dieu m’en don bon acert

de lieis on no·m val escrima;

e quan remir sa crin saura

cors qu’a graile e nueu 20

mais l’am que qui·m des Luzerna.

 

Tan l’am de cor e la queri

qu’ab trop voler cug la.m toli,

s’om ren per trop amar pert,

que.l sieu cors sobretrasima 25

lo mieu tot e no s’aisaura:

tan n’a de ver fag renueu

qu’obrador n’ai’e taverna.

 

No vuelh de Roma l’emperi

ni qu’om m’en fassa postoli 30

qu’en lieis non aia revert

per cui m’art lo cors e·m rima;

e si.l maltrait no·m restaura

ab un baizar anz d’annueu,

mi auci e si enferna. 35

 

Ges pel maltrag que·n soferi

de ben amar no·m destoli;

si tot mi ten en dezert

per lieis fas lo son e·l rima:

piegz tratz, aman, qu’om que laura, 40

qu’anc non amet plus d’un hueu

selh de Moncli Audierna.

 

Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura

e cas la lebre ab lo bueu

e nadi contra suberna[27] [120].

 

Se nella Canso do·ill mot son plan e prim Arnaut Daniel afferma di essere un fabbro della poesia per mezzo dell’«arte d’Amore», che dà «valore» alle parole, qui la metafora viene dilatata a tutto il componimento. Il riferimento alla rimeta rambaldiana è chiaro sia nel tono generale dell’incipit («Ab gai so cuindet e leri / fas motz e capus e doli» vs «En aital rimeta prima / m’agradon lieu mot e prim / Bastit ses regl’e ses linha»[28] [121]), sia nell’andamento metrico eptasillabico, sia nei continui riferimenti all’operare dell’artigiano. In Ab guai so la verità delle parole è direttamente legata allabor limae del poeta, la coscienza della veridicità è in rapporto con la retorica: la posizione di Arnaut è quindi opposta a quella di Marcabru, critico della «falsa razo daurada». Per Arnaut Daniel è Amore che indora le parole, è Amore che porta il poeta all’utilizzo di quegli artifici criticati dal grande moralista. L’Amore che canta Arnaut Daniel è in grado di apportare un miglioramento, un dirozzamento nell’animo come nelle parole: Amore è la causa del perfezionamento sentimentale e retorico del poeta. In Ab guai so ritorna particolarmente insistente il motivo del disinteresse del poeta nei confronti dei beni materiali e degli onori mondani[29] [122] ed è accennato il tema della perdita per «troppo volere» (vv. 23-24), che non sarà senza relazione con la rovinosa predilezione di Arnaut per il gioco d’azzardo[30] [123]. Il «maltraire» del poeta è comparato a quello del lavoratore (v. 40). Termini come capus, doli, escrima, aisaura, renueu,laura, bueu, o locuzioni come «qu’anc non amet plus d’un hueu», contribuiscono a dare al componimento un duplice registro stilistico, giocato nello stesso tempo sulla ricercatezza e sul livello basso del linguaggio: il lavoro, l’usura, la caccia, sono motivi che fanno da contrappunto al dichiarato disprezzo dei beni terreni a favore dell’amore per la donna. La povertà del poeta e il suo attaccamento alle cose mondane sono altrettanto visibili nel lessico utilizzato: in questo quadro ritengo sia possibile fornire una spiegazione del famoso verso 43: «Ieu sui Arnaut qu’amas l’aura». Il verbo amas, in particolare, ha dato adito ad una polemica in merito al suo significato: tradotto da Canello, Lavaud, Toja, Wilhelm, Eusebi e Riquer con termini di significato analogo all’italiano «ammassare»[31] [124], è stato invece interpretato differentemente da Perugi, che traduce ‘abbraccio’, ritenendo l’adynaton come «uno dei più classici virgilianismi tematici»[32] [125] e da Lazzerini, che preferisce ‘colpisco’[33] [126]. Ritengo però che il significato ritenuto in modo maggioritario dai critici sia da preferire, per la corrispondenza con un luogo di Bertran de Born legato all’opera di Arnaut Daniel:

 

E ja thezaur vielh no vuelh amassar,

Qu’ab thesaur jove pot pretz guazagnar[34] [127].

 

Al mondano ammassare «thezaur» o «l’aur» Arnaut Daniel oppone quindi il suo «ammassar l’aura»[35] [128]: il gioco è evidente: anche qui viene rivendicata la rinuncia alle ricchezze terrene, non l’aur, ma l’aura, non l’oro, ma l’aria. Tale interpretazione è a mio avviso importante per comprendere il gioco dell’intero componimento e può essere utile per interpretare un altro luogo cruciale (in tutti i sensi) del testo. Una poetica del disprezzo delle cose terrene, materiata di riferimenti realistici. Il lavoro del poeta allontana il poeta dai beni materiali, l’Amore per la Donna, anche se lo fa soffrire più di chi lavora la terra, è in grado di procurare un raffinamento interiore che si esplica nel chantar. Il lavoro e il profitto sono quindi intimamente legati alla poetica di Amore: non profitto terreno, ma superiore gloria costituita dalla bontà del canto. Così, gli ultimi due versi della strofe IV (vv. 27-28) sono stati interpretati nei modi più diversi dai vari editori del canzoniere danielino, ma ritengo che si possa fornire un’interpretazione soddisfacente proprio sulla base della riflessione avviata sul senso della metafore artigianali e ludiche in Arnaut Daniel. Sarà utile innanzitutto ridiscutere la questione, esponendo le lezioni concorrenti e le interpretazioni del testo fornite dai vari editori.

Il testo è tràdito da 14 mss: A B C D H I K N N2 R Sg U V a. Questa la varia lectio per i due versi[36] [129]:

 

v. 27. enans nay fag un uers nou R

n’a] ABIKN2Sg ai, CDHVa nai, N a.

de ver] C dauer, DHVa deuers, IKN2 damor.

v. 28. nai] UV na N a

taverna] R caterna.

 

Ecco il testo e la traduzione dei differenti editori:

 

Canello: «Tant a de vers fait renou / C’obrador n’a e taverna». «e tanto essa ha fatto co’ miei versi da usuraja, che ora è padrona dell’officina e dello spaccio».

Lavaud: «Tant a de ver fait renou / C’obrador n’a e taverna», «Elle a en cela vraiment si bien fait l’usure qu’elle possède à la fois l’artisan et la boutique».

Toja: «tat a de ver fait renou / c’obrador n’a e taverna». «e in vero tanto ha fatto l’usuraia – che è padrona dell’operaio e dell’officina».

Perugi: «tant ai de ver fait renuo / c’obrador n’ai e taverna». «tanto ho accresciuto il mio capitale di sentimenti che posso tenerne officina e bottega».

Wilhelm: «tant a[i] de ver fait renou / c’obrador n’a[i] e taverna». «She’s made such a great new loan indeed / That she owns the craftman and the shop».

Eusebi: «tan n’a de ver fag renueu / q’obrador n’ai’e taverna». «tanto invero ha praticato su di lui l’usura da possederlo tutto».

 

La discordanza fra le diverse letture riguarda soprattutto due punti: 1) la scelta della variante ai vs. a e quindi del soggetto della frase: il poeta o la donna (Perugi vs. altri); 2) la scelta della variante de vers ‘versi’ (Canello vs. altri) vs. de ver ‘invero, veramente’ (Lavaud, Toja, Eusebi) o ‘di sentimenti’ (Perugi).

1) Per Eusebi ai al v. 27, presente in tutti i mss. eccetto NU, sarebbe un errore poligenetico «suggerito dal congiuntivo presente del verbo successivo»[37] [130]. L’oggetto di «far renou» sarebbe quindi il cors del v. 25. Ciò sulla base della scelta della variante minoritaria fatta da quasi tutti gli editori. Questa la nota di Toja in proposito:

 

i versi sono oscuri, non tanto per il senso letterale, quanto per il legame logico col contesto. La lezione più sconcertante è quella data dalla maggioranza dei mss.: ai pera; più logica a fait renou riferita alla donna. […] Arnaut ha detto che il cuore della donna col suo amore ha sommerso il suo; ora dice che essa lo sfrutta, lo mette a usura. I due concetti concorrono a formare l’immagine di una donna dispoticamente padrona del cuore del trovatore[38] [131].

 

Si noterà che l’immagine della donna come usuraia sarebbe sembrata irrispettosa anche ad un animo meno raffinato di quello di un trovatore. D’altronde mi sembra che, da un punto di vista di metodo, sia necessario ricorrere alla lezione largamente minoritaria solo nel caso in cui l’altra non fornisca un senso plausibile. Così Perugi, non senza riconoscere che «soltanto la consecuzione (n)ai…ai è quella ecdoticamente meglio garantita» tenta di interpretare la «soluzione differenziata» di V(nai…na) e fornisce in prima istanza una spiegazione che elimina questo notevole problema di delicatezza sentimentale[39] [132]. D’altronde la lezione accolta a testo da Perugi, ai…n’ai, conforme alla stragrande maggioranza dei manoscritti, non sembra mostrare alcuna controindicazione.

2) Nel riconoscere l’oscurità dei due versi, Canello suggeriva, oltre alla soluzione accolta, di intendere vers come ‘primavere’, e offriva a contrasto un polisenso privo di riscontro, fortunatamente escluso dalla traduzione, e giustamente tenuto in non cale dagli editori seguenti[40] [133]. Lavaud per primo stampava de ver, lezione scelta poi da tutti gli altri editori, e intendeva ‘vraiment’[41] [134]. Perugi, riallacciandosi al Canello, suggeriva in nota la possibilità di un gioco di parole con d’aver o con vers “versi”, anche se, stampando de ver, optava per intendere ver come ‘sentimento’[42] [135].

Importante per l’interpretazione risulta il rilievo di Perugi, che individuava la ripresa di Duran de Carpentras nel Vil sirventes leugier e venansal (attribuito da M a Peire Bremon de Ricas Novas): «E qar ieu eis afolli e desval / lo sirventes, metrai y per delir / lo mieg princep, qe nasqet al morir / de tot ver dig, per mensongier cabal; / qe d’aqo ten obrador a renieu: / don a tort ten del principat lo feu; / e s’ieu.l lauziei en mas coblas, menten, / Dieus m’o perdon, q’ab ver dit me.n desmen»[43] [136]. Perugi, quindi, interpretava:

 

Arnaut ha tanto accresciuto, con la tecnica del prestito a usura, il capitale delle proprie verità amorose che ora ne possiede a sufficienza per mantenere sia l’officina che la vendita al minuto. Anche il passo di Duran de Carpetras citato sembra voglia affermare qualcosa di analogo applicato al contrario del ver, cioè alla menzogna […]. Questa, d’altra parte, sembra l’unica via che permetta di rispettare al tempo stesso la realtà manoscritta e la verosimiglianza testuale: è questione dei famosi vers da non divulgare, anzi da celare a ogni costo; Arnaut li ha accumulati proprio come un usuraio il capitale, e ne ha stipato il proprio atelier[44] [137].

 

D’altronde, se sul termine renou c’è sostanziale accordo nell’interpretarlo con “usura”, conformemente del resto alla glossa del canzoniere H: «renous, dicit quia cum anuo renovatur»[45] [138], per i due sostantivi del v. 28 l’interpretazione e la glossa è un po’ più oscillante: secondo Toja con entrambi i termini Arnaut Daniel «riprende il concetto del poeta artigiano»[46] [139]. Eusebi affermava che «anche se il senso è chiaro e se si tratta probabilmente, come già pensava Canello, di una “frase fatta”, non è altrettanto chiaro che cosa designino qui obrador («operaio», «officina»?) e taverna». A chiarire l’interpretazione di obrador Perugi riteneva «decisiva l’ascendenza» di Ben vueill que sapchon li pluzor del coms de Peiteus, ma si noterà che qui non sono i sentimenti o le verità in rapporto con l’officina, ma il componimento (il vers)[47] [140]. Si noterà inoltre che l’insieme degli esegeti, da Canello in poi, ha operato una «censura»: quella ditaverna[48] [141]. Benché tutti i passi trobadorici in cui il termine si rintraccia rinviino al luogo del gioco e del bere[49] [142], nessuno ha osato andare oltre il canelliano «spaccio». Se invece si parte dal termine proprio, il passo acquista una pregnanza e una chiarezza inaspettata. L’obrador e la taverna. Il primo è il luogo del «fare» artigiano, il secondo il luogo del tempo libero, del gioco. I due luoghi si oppongono nella vita del tempo: l’uno è il luogo del lavoro, l’altro è il ricettacolo dei nulla-facenti. Arnaut Daniel è «fabbro» ed è giocatore: l’aspetto poietico della sua poesia è non solo riconosciuto dai posteri, ma è anche più volte messo in rilievo dal trovatore. Ma l’arte arnaldiana si sostanzia anche del gioco, della taverna. Così mi sembra che la soluzione più corretta riguardo al problema della variante discussa al punto 1 sia quella conforme alla lezione di gran lunga maggioritaria nei codici: ai…n’ai, proposta a testo da Perugi. il riferimento all’usura e al gioco non può non far riferimento ad Arnaut Daniel stesso. Il secondo problema è invece più delicato: o si accetta a riscontro il luogo di Duran Sartor de Paernas e si interpreta ver come ‘verità sentimentali’ (o semplicemete ‘verità’), o si accetta quello di Guglielmo IX e allora sarà necessario tornare all’interpretazione di Canello. Se a favore di ver sta la testimonianza di cinque manoscritti contro quattro (ABSgUN vs DHRVa: la scelta non è attuabile per via stemmatica), a sostegno di vers = versi si allegherà una constatazione e un ulteriore riscontro. Se il termine renou è certamente da interpretare con ‘usura’, a mio avviso nel lettore non poteva non rinviare immediatamente al campo semantico del «rinnovare», espresso da lemmi come renovelament, renovar, renovelar. Soccorre in tal senso Ab nou cor et ab nou talen, un testo in cui l’immancabile Raimbaut d’Aurenga insiste appunto sulla «novità» del suo componimento:

 

Ab nou cor et ab nou talen

Ab nou saber et ab nou sen

Et ab nou bel captenemen

Vuoill un bon nou vers commensar;

E qui mos bons nous motz enten

Ben er plus nou a son viven

Qu’us vieills en deu renovellar»[50] [143].

 

Il rinnovamento spirituale del poeta coincide con il rinnovamento della poesia. Mi sembra che, considerata l’importanza del trovatore di Orange nella poetica di Arnaut Daniel, questo riscontro sia tutt’altro che da sottovalutare: la lezione di R («enans n’ai fag un vers nou») va d’altronde proprio nel senso di questa interpretazione. Se si giustappone il riscontro rambaldiano con l’espressione di Guglielmo IX, anch’egli ben presente nell’opera danielina, l’ipotesi che la lezione da accogliere sia vers e non veracquista sicuramente maggiore interesse. Accogliendo la lezione vers avremmo a che fare con una nuova dichiarazione di poetica, che ben si riconnetterebbe con quanto affermato nella prima strofe e non è ininfluente a tal riguardo che in vari canzonieri la quarta strofe segua proprio quella incipitaria[51] [144].

Alla luce di quanto detto, scioglierei il distico in questo modo: «tan ai de vers fag renueu / q’obrador n’ai e taverna». La scelta di vers d’altronde, rende possibile un’interpretazione polisemica, assolutamente plausibile: è noto infatti che in un periodo più tardo i trovatori avevano fatto derivare vers da verus, attribuendo al genere una valenza moralistica presente solo parzialmente nei primi componimenti con questo nome. Non escluderei quindi che anche in Ab gai so Arnaut Daniel abbia giocato sul doppio senso di vers, inteso come componimento, e come verità. Interpreterei quindi così: «tanto ho rinnovato (o fatto fruttare) il mio far poesia (o le mie verità), che ne ho officina e taverna». L’officina e la taverna di Arnaut Daniel sono quelle che ha ottenuto mettendo a profitto il proprio poetare e i propri sentimenti veritieri: ancora una volta, quindi, disprezzo dei beni materiali a favore dei valori poetici e sentimentali. In quest’affermazione possiamo riconoscere una chiave di tutto il poetare d’Arnaut Daniel, che, come si è visto, è faber et ludens nello stesso tempo: ilvers, il genere onnicomprensivo del primo trobadorismo, è il luogo in cui queste due qualità si manifestano e l’officina e la taverna saranno quindi i due luoghi che metaforicamente rendono la dualità del poetare[52] [145].

Il «fare», implicito nello stesso concetto di poiesis, viene talvolta a coincidere coscientemente nell’arte dei trovatori con il «giocare», poiché il poeta non è solo creatore dal nulla, come Dio, ma ha anche il laicissimo compito di dilettare il proprio uditorio. Non è un caso che solamente la funzione «poietica» sia stata quella raccolta e còlta da Dante, che defi nendo Arnaut «miglior fabbro» si riferisce al fabbrile fare poetico evocato dalle molte peculiarità lessicali del trovatore. Il termine metaforico «fabbro» provoca l’associazione automatica della poesia con il mestiere (al quale viene anche riconosciuto implicitamente il primato nella sfera artistica): il joc, pur continuando ben oltre il primo trova tore, e pur essendo intrinseco alla cultura stessa del trobadorismo, essendone una qualità connotante almeno quanto quella delmester, non sembra es sere recepito come importante dal nostro maggior poeta, che probabilmente ne limitava la pertinenza alla sola poesia burlesca, e in ciò risulta patente l’enorme distanza che separa lo spirito del trobar da quello di altre esperienze poetiche.


[1] [146] Ed. Boutière, Schutz & Cluzel 1973, p. 59.

[2] [147] Cf. ivi, p. 441.

[3] [148] Ed. Pattison 1952, p. 173: «Ara·m platz, Giraut de Borneil, / Que sapcha per c’anatz blasman / Trobar clus, ni per cal semblan. / Aiso·m digatz, / Si tan prezatz / So que es a totz comunal; / Car adonc tut seran egual». Mi sembra che abbia senz’altro ragionePaterson 1975, p. 146 quando afferma che So que es a toz comunal «probably does not mean ‘what everyone can understand’, but ‘what everyone can compose’». Cf. anche Mölk 1968, p. 116.

[4] [149] Cf. in proposito Pollmann 1965, p. 44; Mölk 1968, pp. 126-130.

[5] [150] Sulla levitas del contenuto contrapposta alla complicazione formale mette l’accento lo stesso Raimbaut d’Aurenga in Una chansoneta fera: «Ben la poira leu entendre / Si tot s’es en aital rima» (ed. Pattison 1952, p. 75, vv. 5-6). In altri componimenti lo stileleu è associato a quello prim: «En aital rimeta prima / M’agradon lieu motz e prim» (ed. ivi, p. 72, vv. 1-2), e alla subtilitas: «Apres mon vers vuelh sempr’ordre / Una chanson leu per bordre / En aital rima sotil» (ed. ivi, p. 78, vv. 1-3). Sulla difficoltà di riunire in un unico progetto i tre testi sopra citati, cf. Paterson 1975, p. 180, anche se ha senz’altro ragione Mölk 1968, pp. 126-130 quando individua nelle intenzioni dell’autore un’opposizione «contenuto lieve» vs «forma ordita».

[6] [151] Cf. Paterson 1975, pp. 179-185.

[7] [152] Cf. ivi, pp. 183-184: «Prim and sotil seem above all to suggest a texture. Trobar prim may be a compromise between clus and leu in that it combines rarity and richness of rhymes and vocabulary from the Marcabrunian tradition with the light touch and smouth polish sought in the trobar leu; but it may simply represent a search for new forms». E poi ancora, p. 184: «It may be convenient to call these experiments, and the search for new and rare forms without the clus elements of intertwined meanings and gradual unfolding of the razo, trobar ric; but it is doubtful whether the troubadour themselves ever did so. They appear not to have thought of separate, well-defined styles until some conflict arose between obviously different attitudes to style».

[8] [153] Tale connotazione ideologica trova ad esempio una manifestazione poetica esplicita, sia pur in versione polemica, nella canzone di Lanfranc Cigala: «Escur prim chantar e sotil / Sabria far, si·m volia / Ams no·s taing c’om son chant afil / Ab tan prima maestria / Que no sia clars com dia, / Que sabers a pauc de valor / Si clardatz no·ill dona lugor, / Qu’escur saber tota via / Ten hom per mort, mas per clardat reviu, / Per qu’ieu clar d’ivern e d’estiu. / Tan tost chant d’ivern qan d’abril / Ab sol que razos i sia, / E pres mais, qui qu’en als s’apil, / Clars digz ab obra polia / Qu’escurs motz ab serran lia, / Qon cel que·l fai ab clardat agradiu; / Per qu’eu, qan chant, en chantar clar m’abriu». Sugli esordi stagionali cf. Scheludko 1936-1937; Ross 1953; Press 1962-1963; Wüffen 1963. Sull’esordio invernale cf. Guitart Utgé 1993.

[9] [154] Cf. Paterson 1975, pp. 86-87.

[10] [155] Cf. ed. Boutière, Schutz & Cluzel 1973, 263: «trobet ben e cantet ben. e fo lo premiers bons trobaire que fon outra mon, et aquel que fez los meillors sons de vers que anc fosson faichs e·l vers que ditz: Dejosta·ls breus jorns e·ls lonc sers».

[11] [156] Cf. Beggiato 1976.

[12] [157] Cf. in proposito De vulgari eloquentia riguardo ad Amor tu vedi ben

[13] [158] Un ruolo importante, d’altronde, potrebbe averlo giocato proprio Ar resplan la flors enversa di Raimbaut d’Aurenga, che forse Dante riteneva proprio di Arnaut Daniel. A questo trovatore, infatti, la attribuiscono i manoscritti U e c, che appartengono ad una tradizione avente diramazioni in Toscana e probabilmente conosciuta da Dante: cf.Santangelo 1905, p. 58; Santangelo 1959, passim; Avalle 1961 [1993], 98 ss.

[14] [159] Cf. Mancini 1991, p. 45: «virtuosismo, quello di Raimbaut, non solo formale, ma impegnato in un dialogo bizzarro con tutta la tradizione trobadorica, intriso di umori saturnini, di teatralità, di felicissimi movimenti parodici».

[16] [160] Ed. Marshall 1969

[17] [161] Su cui cf. Spaggiari 1992, pp. 3-24, in particolare p. 15 e 23.

[18] [162] Ed. Pattison 1952, p. 72, vv. 1-32.

[20] [163] Ed. Eusebi 1984, p. 13.

[21] [164] Cf. ivi, p. 14.

[22] [165] Cf. Ab guai so cuindet e leri (o En cest sonet coind’e leri) ivi, p. 71, v. 32. Su questo testo cf. oltre. Secondo Eusebi (ivi, p. 14) con «ard’e rim», «se non si è davanti ad una iterazione sinonimica […] sarà da pensare a un rimar «crepare», «fendere» (come del ceppo che si fende bruciando). La coppia rimica prim : rim si incontra anche in Aissi mou di Raimbaut d’Aurenga (ed. Pattison 1952, p. 126, vv. 25-26 e 37-38).

[23] [166] Il meccanismo è stato chiaramente esplicato da Perugi 1989-90, pp. 203-204, cui si deve anche il riconoscimento di questo testo come fonte petrarchesca. Le affinità permutative con Lo ferm voler qu’el cor m’intra sono state rilevate da Billy 1993, p. 219 e nota 22 e p. 236.

[24] [167] Cf. Perugi 1978, II, pp. 131-132.

[26] [168] Per referenze artigianali in altri poeti, cf. Paterson 1975, p. 189.

[27] [169] Ed. Eusebi 1984, pp. 68-73.

[28] [170] La variante incipitaria concorrente a quella comunemente ammessa per il testo di Arnaut Daniel («En cest sonet cond’e leri») renderebbe i due attacchi ancora più simili.

[29] [171] Cf. vv. 15-18, 21, 29-30.

[30] [172] per di più versi «Tan l’am de cor e la queri / qu’ab trop voler cug la·m toli, / s’om ren per trop amar pert» hanno un’affinità tematica e fonica, oltre che con l’incipit, anche con «que pert per mal dir s’arma» (v. 3) e con «tal paor ai que·l sia trop de m’arma» (v. 12) della «sestina».

[31] [173] I primi quattro alla 3a persona singolare, gli ultimi due alla 1a. Canello: ‘ammassa’; Lavaud: ‘amasse’; Toja: ‘raccoglie’; Wilhelm: ‘hoards’; Eusebi: ‘ammucchio’; Riquer: ‘amontono’.

[32] [174] Cf. Perugi 1978, II, p. 347.

[33] [175] Cf. Lazzerini 1993, pp. 157-162..

[34] [176] Ed. Gouiran 1987, p. 536, vv. 41-44.

[35] [177] Cf. anche Bernart Marti, ed. Beggiato 1984, p. 151, vv. 22-23: «Aquist d’aver ammassaire, / malparlïer, lenguatrenchan».

[36] [178] Riporto le sole varianti di senso; prima della parentesi quadra c’è la lezione accettata da Eusebi. Essendo gli apparati delle edizioni correnti difformi fra loro, ho ricontrollato le lezioni su microfilm.

[37] [179] Cf. Eusebi 1984, p. 71.

[38] [180] Cf. Toja 1961, p. 280.

[39] [181] Cf. Perugi 1978, II, p. 341: «tale è la somma di sentimenti che Arnaldo ha preso a prestito dal cuore della donna, e tanto elevato è il tasso d’interesse, che essa ha finito col diventare padrona di officina e bottega».

[40] [182] Cf. Canello 1883, p. 226: «Versi oscuri, dei quali non si vede bene il collegamento logico con quanto precede. Forse essi racchiudono un doppio senso e giocano intorno ad esso; ad ogni modo in due guise si può interpretare la loro lettera: 1) ‘e tanto ha fatto l’usuraja co’ miei versi (coll’opera mia), che ormai è divenuta padrona del laboratorio e della bottega’; 2) ‘e per tante primavere ha rinnovato (l’allagamento) che ormai possiede di me laboratorio e bottega’».

[41] [183] Cf. Lavaud 1910, p. 63.

[42] [184] Cf. ivi.

[43] [185] Ed. Boutière 1930, p. 81, vv. 25-32 (trad. ivi, p. 84: «Puisque j’injurie et rabaisse moi-même mon sirventés, j’y mettrai, pour le détruire, en guise de menteur parfait, le “demi-prince” qui naquit à la mort de toute parole vraie; car de cela (de mensonge) il tient boutique à usure, et c’est à tort qu’il tient le fief de la principauté. Si je l’ai loué [antérieurement], en mentant, dans mes couplets, que Dieu me le pardonne, car je me déments sincèrement». Secondo Perugi 1978, II, p. 341 l’interpretazione De tot ver dig«ci conferma che ver = ‘sentimento’ come in A[rnaut] Dan[niel] 9.47, ciò che illumina anche il glossema di IKN2».

[44] [186] Cf. ivi, p. 342.

[45] [187] Ed. Careri 1990, p. 470. Perugi, ivi, come si è visto si distacca leggermente da questa interpretazione: «far renou viene a significare qualcosa come ‘accumulare il capitale, fare incetta sul mercato’».

[46] [188] Cf. Toja 1961, p. 280: «Per taverna si ricordi anche il dantesco artis ergasterium(De vulg. eloq., II, IV, 1). Il verso significa che la donna, usuraia dell’amore si è impadronita della persona e dei beni del suo debitore».

[47] [189] Ed. Pasero 1973, p. 165, vv. 1-5: «Ben vueill que sapchon li pluzor / d’un vers, si es de bona color / qu’ieu ai trat de bon obrador / qu’ieu port d’aicel mester la flor, / et es vertatz».

[48] [190] Solo Riquer 1994, p. 145 traduce «En verdad ella ha ejercido tanto a usura que tiene obrador y taberna de ello», glossando (nota al v. 28): «por las tabernas pululaban los prestamistas».

[49] [191] Cf. Semrau 1910, pp. 9-10, nonché l’excursus del capitolo seguente.

[50] [192] Ed. Pattison 1952, p. 184, vv. 1-7.

[51] [193] Cf. il prospetto in Eusebi 1984, p. 66.

[52] [194] È interessante che quella fabbrile e quella ludica siano considerate funzioni antropologicamente primarie, attribuibili all’Uomo prima ancora che al Poeta. La felice definizione di Huizinga di Homo ludens prende le mosse proprio dall’insufficienza dell’attribuire all’uomo solo la capacità artigianale: «Quando noi uomini non risultammo così sensati come il secolo pla cido del “culto della ragione” ci aveva creduti, si dette alla nostra specie, accanto al nome di homo sapiens, ancora quello dihomo fa ber, uomo produttore. Termine che era meno esatto del primo per ché anche più di un animale è faber. Ciò che vale per fare, vale anche per giocare: parecchi animali giocano. Tuttavia mi pare che l’homo ludens, l’uomo che gioca, indichi una funzione almeno così essenziale come quella del fare, e che meriti un posto accanto all’homo faber: cf. Huizinga 1938 [1946], p. 13.

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La traduzione di Pietro Tripodo

Canti di scherno e d’amore, traduzione di Pietro Tripodo, con un saggio di Paolo Canettieri, Roma, Fazi, 1997

 

 

È sul terreno dello stile, nei meravigliosi versi che pertengono all’ispirazione, che troviamo un Arnaut  Daniel vittorioso, apprezzato e imitato da Dante e da Petrarca, tradotto e utilizzato in versi da poeti come Pound o da filologi sensibili alla poesia come Canello, Sansone e Beltrami.

L’innovativa, preziosa traduzione di Pietro Tripodo  ha più di un pregio e credo che d’ora in avanti sarà un punto di riferimento costante per il lettore italiano non specialista.

In primo luogo perché questa traduzione riflette in modo organico e complessivo l’impianto della poesia del «miglior fabbro», tutta giocata com’è sulla lingua e sullo stile, in una mimesi pressoché totale con il testo tradotto. Mimesi, sia chiaro, non tanto sul piano delle rime, il cui estremismo sarebbe quasi irripetibile, ma sul terreno dei giochi linguistici e dell’innovazione lessicale. Al punto che l’italiano della traduzione sembra a volte volersi sostituire al provenzale e assumere autonomia (giustificata anche dal fatto che Tripodo è poeta prima che traduttore).

In secondo luogo perché abbiamo qui l’elegante prodotto di un immenso lavoro, messo a profitto in una poesia usuraia e usurante. Un immenso lavoro di tarsia, ruminazione di un testo considerato quasi sacralmente, e di cui, purtroppo, si può dar conto solo in modo sommario. Rispettando la più evidente esigenza trobadorica, Tripodo ha cercato, per quanto gli era possibile, la somiglianza fonica fra le parole di fine verso, inseguendo nella traduzione rime o assonanze con lemmi vicini a quelli provenzali (preferibilmente, mi sembra, trascegliendo quelli documentati nel ‘200 italiano), anche a costo del calco o del neologismo; dove ciò non era possibile ha cercato comunque di mantenere almeno l’assonanza tonica. Sempre in clausola mi sembra da sottolineare il tentativo di fedeltà alle parole bisillabe parossitone, frequentissime nell’originale (la clausola sdrucciola è limitata a VIII 33 e XX viii 2).

Più arduo il tentativo di calco del sillabismo originale: praticamente perfetto e sia pure oscillante da una scansione dialefica duecentesca a una “disinvoltura” sinalefica novecentesca nelle traduzioni da Ia a VI e poi in XV e XVII-XVIII (in tutto la metà dei componimenti); nelle altre questo rispecchiamento metrico è parziale, ma comunque sempre cercato.

Di solito il corpo fonico della parola provenzale è più breve, più breve in particolare il numero delle sillabe grammaticali e quindi, salvo dieresi, il numero delle sedi metriche; come adeguare l’italiano a una lingua che, dunque, a parità di metro, ha dalla sua il vantaggio d’una maggiore densità semantica? (“Inadeguatezza” a cicli risorgente: nella «nostalgia, che qualche nostro contemporaneo nutre, della concentrazione monosillabica inerente alla poesia inglese», come Contini scrive nella prefazione all’edizione Toja di Arnaut Daniel; concetto non del tutto remoto, per il contesto in cui si trova, da quello di Montale nella premessa ai Canti barocchi di Lucio Piccolo: «mi veniva fatto di pensare, non so perché, a quei poeti gallesi — a Dylan Thomas, quando non scriveva da perfetto ubriaco — che sembrano usare una lingua primordiale, di scavo»).

Diciamo subito che, fra i rimedi, quello rischiosissimo offerto dalla tradizione italiana dell’apocope è salvo eccezioni adottato qui a malincuore da Tripodo (al di là d’ogni principio anacronistico potrebb’essere forse allarmante il contrario). A far le spese di questa traduzione imitativa sono, meglio, le congiunzioni subordinanti, più spesso causali, o anche di altro tipo: dunque sono ragioni metriche; ma in qualche caso i nessi sintattici simili o uguali — come in italiano che, ché, sì ché — susseguentisi nell’originale in serie di versi contigui senza, come sembra, intenzioni retoriche ha pure in qualche modo giovato non tradurli: pena, a evitarli altrimenti, rivoluzioni per principio, se non inevitabili, evitate. Sicché, là dove necessario, scompare alla vista una fetta d’ipotassi a favore d’una paratassi asindetica, scandita da interpunzione media o forte.

La febbre mimetica invade tutto l’organismo dell’Arnaut italiano: dalle grafie arcaizzanti alle parole, non solo in clausola. Così il lettore potrebbe trovare alcune ricercatezze di questo italiano leggendo la seconda risposta della genovese nel contrasto bilingue di Raimbaut de Vaqueiras o la Nativitasrusticorum di Matazone da Caligano (qualche clausola analoga nell’Entrée d’Espagne), o Giacomo da Lentini o Paolo Zoppo o Bonvesin de la Riva o Cino da Pistoia o Dante o Petrarca o Antonio da Ferrara o Pietro Aretino o Ludovico Ariosto su su fino a Pascoli, D’Annunzio (i quali ultimi due danno senso francese, ‘mormorare’, a bruire, che in Giordano Bruno aveva significato ‘ruggire’, e che nel Tommaseo-Bellini, dove il verbo è dato per morto, anche voleva dire peggio), Carlo Vallini — in questo secolo, certo, parole come sopravvissute di un antico casato — o qualcosa (soprattutto rime), in sede ironica o straniante, e insieme citazione, e conferma-parodia dell’antico, che rivive nella lettura di Marino Moretti, per fare un altro nome, e infine Zanzotto, Giovanni Giudici: auctoritates tutte peraltro segnalate dal traduttore in postille qui interamente omesse per la natura del volumetto.

Dunque parole rare (croia, andana: e se, per fare un esempio, entrambe oggi in Sandro Sinigaglia, la prima è un flagrante arnaldismo dantesco, infernale — un segno ancora di quella «école de violence verbale», così Contini nella già ricordata Préhistoire, che il trobar clus, anzi Arnaut Daniel, costituì per il nostro massimo poeta —, memore del trovatore anche per il corredo di rime; la seconda era specializzata già nel provenzale antico, ed è registrata nei nostri lessici come ancora viva); varianti metaplasmatiche antiche (s’orgoglia; nellaCanzone di parole fine col senso dell’originale, ‘sdegna’); parole anche attuali ma con significato antico (soggiorna ‘riposa’, ira ‘tristezza’, freddura ‘freddo’); ancora a favore della rima, varianti più rare di già rare parole (broglio ‘brolo’;epistolio, dall’epistolium catulliano, ‘epistola’), o a favore della somiglianza più somigliante possibile paor tradotto ‘pavore’ anziché ‘timore’; inveceenbronc, aggettivo, col più facile ‘in broncio’ anziché col raro aggettivo italiano corrispondente broncio: ma solo perché più somigliante per il suono;grangia, dato ancora per vivo, ‘fattoria d’un luogo pio’, per avvicinarsi al termine originario in clausola agre ‘nido’).

Inoltre calchi di locuzioni resi possibili da uso antico o meno antico: m’è mestieri che (‘è necessario che io’); il bizzarro è al Campidoglio (‘è al culmine’, locuzione proverbiale — esattamente, «montare al Campidoglio» — in una giunta del Tommaseo, nel Tommaseo-Bellini), anche questo per la rima in -oglio; e si può inserire qui il caso della forma ellittica per cui equivalente a ‘per colei a causa della quale’; forzature al fine del calco (ma sovrapposto al fine metrico e, in subordine, anacronistico):culverso, morna (‘scura’; in una lettera di Luigi Pulci è la locuzione verso la mornia ‘all’imbrunire’; cf. fr. morne, ingl. to mourn), crime (umbratilmente esistito, tra Giordano Bruno e Vincenzo Monti) qui coi significati provenzali di ‘accusa’, ‘rimprovero’, ‘diceria’. Non del tutto inutile, credo, aggiungere chetesteso ‘ora’, e anche ‘testé’, è clausola dantesca; retrozara cerca di restituire il prov. reirazar, ‘colpo negativo al gioco della zara’; il significato di appuntarsi(‘attaccarsi, unirsi’, ‘porre il cuore e la mente in checchessia’, ‘arrivare con l’estrema punta’) lo si trova nel Tommaseo-Bellini s. v. appuntare (da punta) ai paragrafi 14, 15 e 16; m’indrappello specchia il m’atropel provenzale; l’it.gomma ritorna alla goma originaria, che significa appunto ‘gomma resinosa’, ‘resina’, quindi ‘balsamo’.

Poi parole antiche che sopravvivono ma confinate in area ancora più specializzata (comba, toma dal verbo tomare). Distorsioni del suono dovute esclusivamente alla rima (duecente, contrafforto, ma questo termine per di più col senso figurato proprio dell’originale); distorsioni (o quasi) nei significati:pedino (‘a piedi’ anziché ‘piedino’, ‘scarpina’), piomba col senso di ‘rinforza col piombo’, ‘impiomba’, senso tutt’altro che trasgressivo quando il verbo ha forma transitiva, ma certo rischioso nel contesto («m’alza e piomba»), e il rischio è dovuto all’ossessione per il calco, qui dall’originario plomba: me pueg e·plomba = ‘mi alza e impiomba’, cioè ‘m’innalza e mi rafforza’. Forme dialettali come ruzza ‘ruggine’, mantenuta nell’uso e già ricordata dal Belli in una sua glossa ad arruzzonita. Pure e semplici invenzioni: imbutiglio (creato, è da ritenere, incrociando il prov. enfonilh con l’it. imbuto); pettiniglio(‘pettignone’, con incrocio analogo); blanda (‘blandisca’); senecchio come finto esito popolare dal seniculum (‘vecchietto’) d’Apuleio. Sempre per maggior somiglianza fonosimbolica, oltreché per vantaggio metrico, espressioni particolari come che non è pari a conca = ‘che non è (fragile) come coppa (di vetro)’; o anche interi versi-monstre come «ché non ho cuor né poter da me scarchi / fermo voler […]», che vorrebbe dire ‘perché non ho il coraggio né il potere di liberarmi del fermo volere’. E ugualmente, infine, a quest’ossessione di perdere il meno possibile son dovuti anche incipit del tipo «Truc Malec io da voi tegno» (‘Truc Malec, sono dalla vostra parte’) o «Son sol che so il sovraffanno ch’è sorto» (‘Sono il solo a sapere il troppo affanno che mi sorge’), senza che tutto ciò potesse nemmeno poi tanto lenire il cruccio che al traduttore è derivato dalla rinuncia a ulteriori avvicinamenti, come quello, per esempio, d’un’ennesima variante incipitaria «L’aur’amara — i broli brancuti».

Nel complesso, si ha un caleidoscopio stilistico che forse non sarebbe spiaciuto ad Arnaut Daniel, e però anche una traduzione poetica di alto livello, oltreché integrale: mi sembra particolarmente lodevole il fatto che Tripodo abbia voluto tradurre non solo i testi canonicamente attribuiti ad Arnaut Daniel ma anche il ciclo dei testi osceni (Ia-Ic) omesso nelle edizioni correnti, nonché i tre componimenti generalmente ritenuti apocrifi (XIX-XXI): è a questo punto chiaro che pure il lettore più dirozzato troverà qui novità emozionanti, dovute soprattutto all’intelligenza e alla sagacia del traduttore, ma anche al fatto che il traduttore, filologo egli stesso, ha sempre letto e ascoltato il filologo di professione.

Una traduzione non facile, certo; ma sono sicuro che sarà ben accolta da tutti coloro che, amanti delle cose difficili e difficilissime, non si arrenderanno di fronte a questo «dire strano e bello», ne percepiranno l’aurea mobilità, epperciò sapranno fare usura di questi versi preziosi.

 

Appendice: qualche esempio

  Arnaut Daniel PC 29.6 (testo di Eusebi 1985 analisi filologica e melodia in Gruber Dialektik 1983, p. 230).

Canso do’ill mot son plan e prim 
fas pus era botono’ill vim, 
e l’aussor sim 
son de color 
de maintha flor, 
e verdeia fuelha, 
e’ill chan e’ill bralh 
sono a l’ombralh 
dels auzels per la bruelha.

Pels bruelhs aug lo chan e’l refrim 
e per qu’om no m’en fassa crim 
obri e lim 
motz de valor 
ab art d’Amor 
don non ai cor que’m tuelha; 
ans, si be’m falh, 
la sec a tralh, 
on plus vas me s’orguelha.

Arnaut Daniel PC 29.

Ab gai so cundet e leri 
fas motz e capus e doli, 
que seran verai e sert 
quan n’aurai passat la lima, 
qu’Amor marves plan e daura 
mon chantar que de lieis mueu 
cui Pretz manten e governa. 

 

Arnaut Daniel PC 29.8 (testo Eusebi)

Douz braitz e critz 
e chans e sos e voutas 
aug dels auzelhsqu’en lur lati fan precz 
quecx ab sa par, atressi cum nos fam 
ab las amiguas en cui entendem: 
e doncas ieu, qu’en la gensor entendi, 
dei far chanso sobre totz de tal obra 
que no’i aia mot fals ni rim’estrampa.

No fui marritz 
ni no prezi destoutas 
al prim qu’intrei el chastel dins los decx, 
lai on estai midonz don ai gran fam 
qu’anc non ac tal lo neps de sanh Guillelm: 
mil vetz lo jorn en badail e’m n’estendi 
per la bella que totas autras sobra 
tan cum val mais gran gaug que no fai rampa.

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[89] https://paolocanettieri.wordpress.com/article/arnaut-daniel-e-il-gioco-dei-dadi-vyvpjuoxc2n0-106/#_ftnref40
[90] https://paolocanettieri.wordpress.com/article/arnaut-daniel-e-il-gioco-dei-dadi-vyvpjuoxc2n0-106/#_ftnref41
[91] https://paolocanettieri.wordpress.com/article/arnaut-daniel-e-il-gioco-dei-dadi-vyvpjuoxc2n0-106/#_ftnref42
[92] https://paolocanettieri.wordpress.com/article/arnaut-daniel-e-il-gioco-dei-dadi-vyvpjuoxc2n0-106/#_ftnref43
[93] https://paolocanettieri.wordpress.com/article/arnaut-daniel-e-il-gioco-dei-dadi-vyvpjuoxc2n0-106/#_ftnref44
[94] https://paolocanettieri.wordpress.com/article/arnaut-daniel-e-il-gioco-dei-dadi-vyvpjuoxc2n0-106/#_ftnref45
[95] https://paolocanettieri.wordpress.com/article/arnaut-daniel-e-il-gioco-dei-dadi-vyvpjuoxc2n0-106/#_ftnref46
[96] http://fmg.ac/Projects/MedLands/GASCONY.htm#dauBernardBezaumeMBernardGabarret
[97] https://archive.org/details/lavasconietude01jauruoft/page/106/mode/1up?view=theater
[98] https://paolocanettieri.wordpress.com/2008/01/09/la-taverna-e-lofficina-il-giullare-e-il-fabbro-nella-poesia-dei-trovatori/#_ftn5
[99] https://paolocanettieri.wordpress.com/2008/01/09/la-taverna-e-lofficina-il-giullare-e-il-fabbro-nella-poesia-dei-trovatori/#_ftn6
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[108] https://paolocanettieri.wordpress.com/2008/01/09/la-taverna-e-lofficina-il-giullare-e-il-fabbro-nella-poesia-dei-trovatori/#_ftn15
[109] https://paolocanettieri.wordpress.com/2008/01/09/la-taverna-e-lofficina-il-giullare-e-il-fabbro-nella-poesia-dei-trovatori/#_ftn16
[110] https://paolocanettieri.wordpress.com/2008/01/09/la-taverna-e-lofficina-il-giullare-e-il-fabbro-nella-poesia-dei-trovatori/#_ftn17
[111] https://paolocanettieri.wordpress.com/2008/01/09/la-taverna-e-lofficina-il-giullare-e-il-fabbro-nella-poesia-dei-trovatori/#_ftn18
[112] https://paolocanettieri.wordpress.com/2008/01/09/la-taverna-e-lofficina-il-giullare-e-il-fabbro-nella-poesia-dei-trovatori/#_ftn19
[113] https://paolocanettieri.wordpress.com/2008/01/09/la-taverna-e-lofficina-il-giullare-e-il-fabbro-nella-poesia-dei-trovatori/#_ftn20
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[115] https://paolocanettieri.wordpress.com/2008/01/09/la-taverna-e-lofficina-il-giullare-e-il-fabbro-nella-poesia-dei-trovatori/#_ftn22
[116] https://paolocanettieri.wordpress.com/2008/01/09/la-taverna-e-lofficina-il-giullare-e-il-fabbro-nella-poesia-dei-trovatori/#_ftn23
[117] https://paolocanettieri.wordpress.com/2008/01/09/la-taverna-e-lofficina-il-giullare-e-il-fabbro-nella-poesia-dei-trovatori/#_ftn24
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