Commento

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In questa trattazione si prenderanno in esame alcuni degli aspetti principali concernenti il componimento che va sotto il nome di «Alba di Fleury». Il codice cui oggi si fa riferimento e contenente il testo sopracitato è il Vat. Lat. 1462, proveniente dall’abbazia di Fleury. Questo manoscritto contiene anche l’opera di Fulgenzio ed una serie di notae iuris, scritte in minuscola libraria merovingica. L’Alba di Fleury sembra essere stata scritta dalla mano di un copista del X sec. con un particolare interesse per l’impaginazione o comunque per la cura formale della sua opera. Un posto decisamente di rilievo nello studio di questo testo lo occupa il refrain[1], di cui in realtà ancora non conosciamo la funzione ma che sembra essere assimilabile a quella di una inserzione per un inno religioso. Il refrain di Phebi claro è situato assieme al testo latino dell’alba, ma nonostante questo sembrano viaggiare autonomamente. Stando a questa considerazione e considerando però la comunanza lessicale e semantica di refrain e testo latino, sebbene distinta dalla lingua che nel ritornello sembra rispecchiare più chiaramente un andamento volgarizzante, bisogna interrogarsi su quale funzione abbia il quest’ultimo nella complessità del testo latino. Come anticipato in precedenza, il refrain sembra avere un aspetto volgare, non c’è infatti da stupirsi del bilinguismo del Phebi claro, dato il peso culturale di un ambiente come quello di Fleury,  motivo per il quale molti vi hanno visto un abbozzo di una  canzone d’alba, un canto di scolta, etc. L’interpretazione del ritornello, qualunque essa sia, non può di certo prescindere dall’analisi delle strofe latine che sono in linea con quelli che si possono definire i topoi letterari dell’innografia. Infatti è presente la tipica contrapposizione luce/tenebre, che allegoricamente rappresenta la Grazia di Dio in opposizione al peccato, ma anche i rimandi ai nemici che simboleggiano anche questa volta la rappresentazioni delle tentazioni. Febo che sorge sembrerebbe un rimando a Cristo che illumina come luce del Sole, nonché simbolo di resurrezione. Oltre alla lettura in chiave cristologica, l’alternarsi di strofe latine e refrain potrebbe leggersi come il naturale dividersi tra la vita quotidiana e la vita religiosa fatta di raccoglimento e contemplazione del mondo. Nel dettaglio del nostro componimento le tenebre ancora non si sono diramate, si presuppone perciò che il tempo sia quello delle ultime ore della notte, poco precedenti alle prime ore dell’alba. I punti di contatto con gli inni mattutini sono evidenti. In merito al genere, Rajna afferma che questo testo rispecchierebbe i canoni di una “alba di incitazione guerresca”, anche se l’aspetto militare qui pare giustificato solamente dal senso artistico del copista[2]. Il motivo della scrittura sembrerebbe essere con più probabilità religioso, in quanto esplicherebbe l’invito a destarsi dal sonno e iniziare a dedicarsi a tutte le attività giornaliere. Il risveglio e l’esortazione potrebbero essere intesi da un lato in senso puramente pratico, infatti sappiamo che l’abbazia di Fleury di stampo benedettino seguiva la regola e di conseguenza è da ascrivere a quegli ambienti ecclesiastici dinamici e produttivi. Dall’altro sono dei chiari rimandi alla dimensione spirituale ed intimistica della vita del fedele, spinto a svegliarsi dal torpore di una vita scarna di spiritualità e ad abbracciare la luce di Dio in ogni giorno. Nel Phebi claro infatti è lo “spiculator” ad annunciare l’arrivo del giorno, non sappiamo con certezza quale possa essere il significato definitivo di questa parola, che nell’innologia antica si trova spesso con l’accezione di “carnefice”. Risulterebbe più consono attribuirgli un significato allegorico e simbolico che lo accosti alla figura di Cristo predicatore, in quanto in alcuni testi innografici si trova il termine “speculatio” utilizzato come sinonimo di “contemplatio[3]. Per quanto riguarda il genere invece è ancora da chiarire entro quale tipologia di inni è da inserire il Phebi claro. Tendenzialmente si possono distinguere due macrogruppi di inni, a seconda dello scopo con cui vengono impiegati: inni per la liturgia ed il canto pubblico ed inni per la preghiera privata. Sebbene il nostro inno sembri appartenere al primo gruppo a causa della ripetizione del refrain, e quindi più simile ai canti religiosi tipici delle preghiere comuni, non c’è da escludere il fatto che possa avere delle somiglianze con il modus canendi dei salmi[4]. Leggendo il componimento da noi preso in esame, si possono notare delle analogie con la struttura dei salmi biblici, che di seguito si cercherà di analizzare. Innanzitutto non appena si inizia a leggere un salmo ci si accorge della sua struttura fondata essenzialmente sul principio della sonorità che deriva dalla quantità delle sillabe. L’andamento del ritmo è poi rafforzato dalla presenza di allitterazioni e allusività lessicali, come succede anche nel Phebi claro. Una caratteristica fondamentale dei salmi è quella del parallelismo, che consiste nell’accostare in versi contigui, o all’interno dello stesso verso, uno stesso concetto ma ripetuto con dei sinonimi, non con lo scopo di ripetere una frase, ma di incrementarne il significato e l’interpretazione per aumentarne l’efficacia. Un aspetto che ci interessa particolarmente è quello del ritornello che, tanto nei salmi quanto nel Phebi claro, ha una funzione di inclusione o di separazione delle strofe. Uno degli espedienti di cui i salmi maggiormente si servono è quello del linguaggio simbolico, di cui il Phebi claro sembra essere permeato. Tipico dei salmi è infatti l’uso di non parlare del Male in modo diretto,  ma di farlo attraverso simboli che fanno riferimento, per buona parte dei casi, alla sfera bellica. Non è raro dunque imbattersi in un lessico che presenta termini come: nemici, aggressore, guardia, combattimento. In conclusione si può affermare che, sebbene il tentativo di accostare aspetti del Phebi claro ai salmi biblici possa risultare un azzardo, non è da escludere il fatto di dover contemplare ogni varietà di componimenti innografici, considerata la peculiarità e  la singolarità di un testo come quello da noi preso in esame. Molti critici hanno cercato di fornire un’analisi accurata degli aspetti caratterizzanti il refrain dell’«Alba di Fleury». La maggior parte di questi concorda sul fatto che sia stato scritto in funzione del Phebi claro, altri invece suppongono che sia un canto popolare accorpato al testo latino, altri ancora che refrain e testo siano stati scritti insieme. In particolare Rajna[5] afferma che quasi sicuramente un poeta erudito non avrebbe inserito porzioni di testo in volgare assieme a dei versi in lingua latina. L’interrogativo sulla funzione del bilinguismo del testo è un aspetto in realtà ancora da chiarire. Da un lato potrebbe spiegarsi come la trascrizione per un coro cantato a due voci, in cui il refrain viene cantato dal coro  e le strofe latine dall’abate. Essendo il testo latino di livello superiore in merito alla purezza della lingua, non bisogna stupirsi del fatto che possa essere cantato solo da un abate, il quale rappresenta la massima autorità all’interno del monastero. Le ipotesi con cui oggi possiamo confrontarci circa il genere vedono come possibili alternative il considerare il Phebi claro o come un inno mattutino o come un’alba religiosa, amorosa o guerresca. Riguardo alla lingua invece possiamo riscontrare dei tratti di lingua latina volgarizzante e galloromanza (occitanico, guascone, francoprovenzale). L’analisi linguistica del refrain risulta essere piuttosto ostica se si considera che la lingua potrebbe essere composita o artificiale, ma ragionevolmente è opportuno considerare che la lingua del refrain sia lo specchio della regione e del tempo storico in cui questo è stato scritto. A livello sintattico, come molti altri testi religiosi mediolatini, il refrain segue una struttura paratattica. Da notare l’ampio utilizzo di imperativi e di congiuntivi esortativi che, tralasciando per un istante l’analisi sintattica, aiutano a cogliere il significato del testo e la volontà dell’autore di renderlo un inno di incitamento per i fedeli. Imprescindibile dall’interpretazione del testo e dalla lingua deve essere l’analisi della struttura metrica del refrain. Refrain che risulta essere scritto in distici simili agli inni e ai testi lirici in antico francese. Questi distici non sempre sembrano divisibili in due emistichi simmetrici del tipo 6p + 6p (che comunque nel resto del testo è piuttosto presente). Norberg[6] afferma che questa struttura metrica sembra essere diffusa in molti refrain dell’innologia mozarabica, già presa come modello di comparazione per l’analisi del Phebi claro. Tra le particolarità di questo testo c’è la simbologia numerica, presente in altri numerosi canti, che da un lato complica l’analisi metrica classica, ma dall’altro colora di significati simbolici il testo preso da noi in esame. Ogni strofa infatti è composta da dodici piedi trocaici e tre dattilici, come le strofe latine classiche, per un totale di trentatré sillabe. Questa struttura a doppia base ternaria e binaria rispecchia sia il simbolismo della religione cristiana, sia le armonie pitagoriche e platonico-agostiniane. Passiamo ora a commentare nello specifico alcune delle forme presenti nel refrain.
  • L’alba par = da notare la presenza dell’articolo, che nel resto del refrain non è più presente. “Par” è di natura provenzale, utilizzato al pari di un grido di scolta per annunciare l’arrivo dell’alba. Questo verso è simile al “Dieu aydatz” per la struttura trisillabica (tipica dei descortz occitanici, dei lais oitanici e della lirica in antico francese), infatti il grido di scolta è “mimato” a livello sonoro dai trisillabi. Il “Dieu aydatz” sembrerebbe un controcanto profano perfetto per analizzare il refrain del Phebi claro, non tanto perché gli autori ne dovessero conoscere il testo, quanto perché ci danno un’ idea delle strutture melodiche e contenutistiche che circolavano nella Francia meridionale.
  • Umet mar atra sol = umet” sembrerebbe una terza persona singolare del latino umeo/humeo che di solito viene utilizzato in maniera intransitiva. Qui invece è un transitivo, direi meglio ancora un causativo, facendolo derivare in questo modo da “umesco” (con desinenza –sco tipica dei verbi causativi). Considerando “umet” nell’interezza del refrain ci accorgiamo di essere davanti all’unica parola latina nonché ad un hapax a livello semantico, di cui però non c’è da stupirsi, considerato questo volgare farcito di latinismi. Il caso di “atra” è invece più complesso, poiché da un lato può riferirsi al mare nel senso di “burrascoso” e quindi sarebbe un apparente femminile latino, dall’altro potrebbe riferirsi a “sol” che può assumere sia il significato di “sole” che di “suolo”. Questo sarebbe un barbarismo reso possibile sicuramente dal contesto linguistico e culturale del refrain, da tradurre quindi con “terra nera” nel senso di “non illuminata dal Sole” oppure in contrapposizione a “terra bianca”(toponimo della Guascogna). L’immagine del Sole oscurato è sicuramente di fattura evangelica, diffusa anche in molti inni, ma è un’immagine che si ritrova anche in alcuni scritti di Fulgenzio, di cui il nostro manoscritto ne riporta l’opera.
  • Poypas = deriva probabilmente da “poypia” e rappresenterebbe un ipercorrettismo o un tentativo di avvicinamento al volgare, o da “poypa” (femminile plurale) di origine francoprovenzale, utilizzato come sinonimo di “mota” ovvero una collinetta artificiale con una torre atta all’avvistamento dei nemici. Questo termine era utilizzato in codesta accezione soprattutto nella zona della Guascogna, ma, con molta probabilità, solo dal XIII secolo in poi.
  • Abigil = è un congiuntivo esortativo da “advigilar”. Qui probabilmente in una forma intermedia tra il latino e la lingua volgare, con presenza di betacismo. Il verbo “advigilare” è molto diffuso nell’innologia del X secolo, in ogni caso il termine “vigilia”è riferibile sia all’ambiente religioso che a quello militare. Stando ad una seconda analisi invece il termine sarebbe un’ esortazione alla veglia e alle grida di scolta. Nella tarda latinità assistiamo ad una rifunzionalizzazione del grido d’allarme che si protende fino alla fine del Medioevo (da intendere quindi “poypas abigil” come “sentinella d’allerta”). Il termine però potrebbe anche derivare da “advigiliam”, in forma apocopata per ragioni metriche.
  • Miraclar tenebras = miraclar” è da intendere come denominale da “miracle”, ma potrebbe derivare anche da “miro” nel senso di guardare fino a lunga distanza. La forma dell’infinito si può considerare come esortativa perché già attestata nello spagnolo, nel francese e nel provenzale.
In conclusione dunque possiamo affermare che il compito di vigilare deve essere assolto sia dai laici che dai chierici. Il pericolo è indubbiamente il Demonio per i cristiani e i fedeli hanno il dovere di difendersi da esso. Come detto precedentemente, non abbiamo ancora finito di interrogarci sul bilinguismo, se questo sia dovuto alla natura paraliturgica del componimento o se venga usato come espediente stilistico simile alla liturgia mozarabica, considerato il fatto che in quel periodo era assiduo lo scambio reciproco di idee e la circolazione di monaci di cultura romanzo-cristiana e arabo-musulmana. L’autore sembra provenire da area francese, o che comunque ne abbia subito l’influenza linguistica. L’artefice del componimento inoltre è abbastanza erudito, tale da conoscere elementi di astrologia, della cultura classica ed innologica. A questo proposito Chiarini e Simonelli[7] credono che se il ritornello fosse stato composto da una penna popolare, allora l’intero componimento sarebbe stato scritto in volgare. Ipotesi valida se si considera che il componimento sia frutto di un solo autore e che il ritornello facesse parte sin da subito del progetto in una visione organica dell’opera. Sappiamo con certezza che quello di Fleury era un ambiente monastico con una singolare rilevanza culturale, tanto da considerarsi la casa madre per tutti i monasteri satelliti che vi gravitavano attorno. L’abate Abbone sembra essere il candidato ideale ad arrogarsi la nomina di autore dell’Alba di Fleury per una serie di ragioni. Innanzitutto sappiamo che operò a Fleury nello stesso periodo di composizione dell’alba ricoprendo anche la carica di praepositus scholaribus, sappiamo che era una personalità dotta poiché aveva studiato in varie città d’Europa. Si interessava di grammatica, filosofia e addirittura astronomia. Sappiamo inoltre che soggiornò per un periodo in Inghilterra, notizia che spiegherebbe almeno in parte la presenza di influssi inglesi nel Phebi claro. Quello dell’alba sarebbe quindi stato un progetto di grande importanza, un progetto che gioca su aspetti cruciali del tempo come quello della lingua, della sintassi, del significato, ma che getta anche le basi per nuovi spunti di riflessione sul nascente modo di fare poesia.
 
[1] In generale è sinonimo di ritornello. In particolare, nella musica trobadorica (chansonballadevirelai etc.), ripetizione di sezioni poetiche sulla stessa melodia. [da “Dizionario Treccani”].
[2] Romance Philology, vol. 66, Fall 2012, pp. 220-222.
[3] Ivi.
[5] Romance Philology, vol. 66, Fall 2012, pp. 247-248.
[6] Ibidem, pp. 253-255.
[7] Romance Philology, vol. 66, Fall 2012, pp. 286-288.